Fiaba raccolta a Ofoten.
Titolo originale: Stalo-Hochzeit
Traduzione
del tedesco di Elisa Zanchetta
Un giorno uno stállu giunse nel luogo in cui un sámi aveva allestito la
propria kota. Il sámi aveva una figlia e quando stállu la vide le
piacque così tanto che le chiese se voleva divenire sua nuora: aveva un figlio
oramai grande che voleva sposarsi.
La fanciulla rispose di no, tuttavia il padre non poté dire «no»: dovette
promettere che la figlia sarebbe divenuta nuora dello stállu. Al ché si
accordarono sulla data in cui il matrimonio avrebbe avuto luogo e stállu tornò sui
suoi passi.
Quando giunse il giorno pattuito, il sámi fece comunicare allo stállu, che
abitava a un giorno di viaggio da lì dietro un monte, che poteva raggiungerli
con moglie e figlio per celebrare il matrimonio. Il sámi aveva mandato entrambi
i figli con le renne a prendere la famiglia dello stállu e li aveva incaricati
di prendere la via a nord del monte o del “versante
a notte”, ma di dire allo stállu, qualora avesse loro chiesto per quale strada erano
venuti, di essere giunti dal “versante
a giorno”.
Quella stessa notte
lo stállu sognò che qualora coloro che sarebbero venuti a
prenderli per il matrimonio fossero giunti dal “versante a notte” del monte, sarebbe stato di cattivo
auspicio. Perciò quando i figli del sámi risposero «Dal “versante a giorno”!» alla
domanda posta dallo stállu,
quest’ultimo ne fu molto felice e li accolse nel modo più amichevole.
Dopodiché lui, la propria Nanna [moglie] e il figlio che si doveva ora sposare si
prepararono per seguire i sámi. Presero con sé anche dei cibi per il banchetto
nuziale e l’intera comitiva si avviò lungo la via che passava per il “versante a giorno” del monte.
Nel frattempo il sámi
con i suoi uomini avevano scavato un foro sulla superficie ghiacciata del lago
proprio in prossimità della propria kota, ricoprendo con cura la buca
con la neve. Avevano anche preparato dei randelli di legno anch’essi posti
attorno alla buca e nascosti sotto la neve.
Ecco ora arrivare lo
stállu con moglie e figlio, guidati da entrambi i figli del sámi e il
matrimonio ebbe inizio. Furono macellate due renne e messi due paioli sul
fuoco. Dopo che la carne si fu cotta per un tempo sufficiente, il figlio
maggiore del sámi tolse il paiolo dal fuoco, lo portò nel boasso, si sedette e
se lo mise sulle ginocchia.
Quando stállu vide questa mossa del figlio del sámi volle che anche il
proprio figlio mostrasse di essere altrettanto resistente, pertanto gli disse:
«Ora prendi tu l’altro paiolo dal fuoco, siediti e mettitelo accanto come
ha fatto il giovanotto sámi!».
Tuttavia il figlio dello stállu non era abituato a queste cose come il
figlio del sámi. Dopo che ebbe tolto il paiolo dal fuoco e fu andato a sedersi
nel boasso, si versò addosso un po’ di acqua bollente che si mise a scorrere
sul petto e lo stomaco, eccetto il basso ventre. Stállu che vide ciò, disse:
«Ti sei bruciato, ragazzo mio?».
«Ah, non è nulla di ché!», rispose il figlio.
Dopodiché iniziarono a mangiare, ma il figlio dello stállu non era in grado
di mangiare nulla. Si era ustionato più gravemente di quanto si potesse immaginare.
Lasciò la compagnia, si recò nella dispensa del sámi, si sdraiò e gemette di
dolore. La moglie lo seguì e si sedette al suo fianco.
Poiché non faceva
ritorno, stállu iniziò ad irritarsi e disse:
«Forse il giovanotto si è procurato una bella scottatura!».
Al ché si recò lui
stesso nella dispensa per sentire come stava il figlio.
«Allora, come va con questo
giovanotto?», chiese alla fanciulla sámi che sedeva alla porta
lasciata aperta.
«Ora dorme!», ella rispose.
John Bauer, Herr Birre och Trollen (1909). Wikimedia Commons |
Il padre della ragazza, anch’egli giunto, notò che il giovanotto era
spirato, ma stállu non ne aveva il benché minimo sospetto. Dopo che ebbero
mangiato e bevuto, chiesero a stállu se aveva voglia di uscire con loro sul
ghiaccio per intrattenersi con svariati giochi comuni presso i sámi. Stállu non
aveva nulla in contrario.
Dopo un po’ fecero giocare stállu al gioco che i sámi chiamano stalostallat, cioè moscacieca: a
uno della compagnia veniva tirato giù il copricapo sámi fino a coprire le
orecchie in modo che non riuscisse a vedere nulla; dopodiché gli si ruotava
attorno e gli si pizzicavano i vestiti mentre lui, a sua volta, tentava di
afferrare le persone come meglio poteva. Ecco che giunse anche il turno di
stállu di fare la mosca cieca. Dopo che ebbe acchiappato il primo, gli
accarezzò il volto dicendogli:
«Simme-sammas[1], domani mattina sarai la mia
colazione!».
Poi ne acciuffò un
secondo:
«Simme-sammas,
domani sarai il mio pranzo!».
Riuscì a prenderne
anche un terzo.
«Simme-sammas,»
disse nuovamente stállu, «ora ne ho anche uno per cena!»
Dopodiché gli corsero
nuovamente intorno, ridendo e divertendosi. Stállu li
raggiunse con un balzo, finendo dritto nel foro praticano sul ghiaccio. In quel
medesimo istante i sámi fecero vibrare anche il randello, picchiando la testa
dello stállu più forte che potevano. Stállu gridò e chiamò a gran voce la sua “nanna” che
accorresse in suo aiuto.
Ma mentre queste accadeva sul ghiaccio, le donne dei sámi sedevano nella kota
e tenevano impegnata la moglie dello stállu in un’altra maniera. L’avevano
fatta appoggiare la testa sul grambo di una delle mogli dei sámi e mentre
questa le cercava i pidocchi, le altre le avevano sciolto le lunghe trecce,
legando le ciocche di capelli ai pali della kota. Si comportavano come
se ammirassero molto tutti gli oggetti che la moglie dello stállu aveva appesi
alla cintola, tra cui trovarono anche il suo ruovdebocce,
ovvero il tubo in ferro di cui si serviva per succhiare la vita e il sangue
delle persone. Lo sciolsero in segreto dalla cintola e lo infilarono nel fuoco,
così che divenne bollente.
Improvvisamente la
moglie dello stállu udì la voce del marito da sotto il ghiaccio e chiese
alle mogli dei sámi:
«Hissogos dobbe læ
vai hasso? – Cos’è, divertimento o rissa?».
«Hisso! Ovvio
che è divertimento!», risposero le mogli dei sámi.
Dopodiché appoggiò nuovamente il capo in grembo alla moglie del sámi e si
lasciò spulciare. Ma improvvisamente udì chiaramente che stállu la chiamava:
«Nanna, Nanna,
buvte ruovdebocce! - Mia cara, mia cara, accorri con il tubo in ferro!».
Ora non poteva più
avere alcun dubbio: stállu era in pericolo di vita. Indignata, balzò in piedi
e, presa dalla paura, non si accorse neppure di essersi strappata le ciocche di
capelli che erano state fissate ai pali della kota. Fece un chiasso
infernale e cercò ovunque il suo tubo in ferro che stava tra gli altri oggetti
che dovevano essere appesi alla sua cintola. Era scomparso.
«Dov’è il mio tubo in
ferro? Chi mi ha preso il tubo in ferro?», chiese alle donne.
Esse indicarono il
focolare e le dissero:
«È lì, nel fuoco!».
La vecchia si
precipitò sul fuoco, prese il tubo in ferro divenuto incandescente e se lo mise
in bocca, ma invece di aspirare sangue umano, aspirò cenere, fuoco e brace, così
che le sue interiora bruciarono e rovinò al suolo morta. Allo stesso tempo gli
uomini avevano fracassato la testa dello stállu che stava
sotto il ghiaccio. E così finì questo matrimonio.
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