I sámi veneravano la luna (Manno) e alcune stelle (Nastek). Manno
aveva una figlia che andò
in sposa a un tale di nome Attjis, pertanto viene chiamata Attjis-ene,
la “moglie di Attjis”. Compare nelle fiabe popolari come una sorta di donna-troll
maligna e furba che ricorre a ogni tipo di astuzia per cercare di sostituirsi alle
mogli altrui; presenta inoltre tratti in comune con la finnica Syöjätär.
ATTJIS-ENE,
LA FIGLIA DELLA LUNA
Fiaba
raccolta a Skjärvö
Titolo
originale: Attjis-ene
Traduzione
dal tedesco di Elisa Zanchetta
C’erano
una volta due orfani, un ragazzo e una ragazza. Si costruirono una casupola
nelle profondità di un luogo isolato e così vivevano come meglio potevano.
Accadde un giorno che il figlio di un re giunse lì e quando adocchiò la
fanciulla se ne innamorò a tal punto che non riuscì a proseguire, ma si
trattenne alcuni giorni presso di loro. Infine dovette fare ritorno dai suoi e quando
alcuni anni dopo apprese che la fanciulla aveva dato alla luce un bambino, mandò
a lei e a suo fratello l’ordine di raggiungerlo al castello. Poiché per
giungervi si doveva attraversare un grande lago, il giovanotto intagliò nel
legno una barca e partirono.
Dopo
che ebbero remato per un bel tratto, giunse Attjis-ene che si era tuffata dalla
riva, li chiamò gridando e supplicandoli di poterli accompagnare come serva, ma
la sorella non voleva acconsentire.
«Ehi,»
disse il fratello, «perché mai non puoi prenderla come serva?» Così le consentirono
di andare con loro.
Poiché
la sorella sedeva a prua, il fratello a poppa e Attjis-ene nel mezzo,
quest’ultima riusciva a udire chiaramente i loro discorsi, mentre gli altri due
si capivano a fatica. Quando ebbero remato per un bel tratto, iniziarono finalmente
a scorgere in lontananza il castello del re.
«Indossa
i tuoi vestiti migliori,» disse il fratello alla sorella, «perché ci possono
già vedere dall’alto del castello.»
«Cosa
dice mio fratello?», chiese la sorella.
«Cosa
dice tuo fratello?», rispose Attjis-ene, «ti dice di indossare i tuoi vestiti
migliori e di gettarti in acqua, così diverrai un’anatra d’oro.»
La
sorella smise di remare e iniziò ad agghindarsi.
«Fai
presto,» disse il fratello, «ché il castello è già molto vicino.»
«Cosa
dice mio fratello?», chiese nuovamente la sorella.
«Dice,»
rispose Attjis-ene, «che devi indossare i tuoi vestiti migliori e gettarti in
acqua, così il principe ti amerà di gran lunga più di prima.»
La
sorella fece come il fratello le aveva detto e si gettò in acqua. Il fratello
voleva trarla sulla barca, ma prima che riuscisse ad afferrarla si era già
trasformata in un’anatra d’oro che si allontanò nuotando; Attjs-ene prese
subito il bambino, se lo portò al seno e lo allattò. Quando furono giunti a
riva, proprio dove si trovava il castello del re, alcune persone andarono loro
incontro e li condussero al castello dove tuttavia il giovanotto non osò
raccontare cos’era successo.
Il
giorno seguente egli prese il piccolo e si recò sulla riva dove iniziò a gridare:
«Oabbatsamaj,
Boade
gaddai!
Mannat
tsierro,
Gussat
mäkko,
Boade
gaddai!»
[«Sorella
cara,
Vieni
a riva!
Il
tuo piccolo piange,
La
tua mucca muggisce,
Vieni
a riva!»].
L’anatra
giunse subito sulla sponda e mentre il fratello le porgeva il bambino, lei si
trasformò nuovamente in fanciulla, lo prese e lo allattò. Quando ebbe terminato,
riconsegnò il bambino al fratello che voleva trattenerla, ma lei si trasformò
nuovamente in anatra d’oro e nuotò verso il largo.
Sulla
via del ritorno il fratello rifletté sul modo in cui riuscire ad acchiapparla,
al fine di farla tornare ad essere una fanciulla umana, ma non riusciva a farsi
venire in mentre nulla, così decise di rivolgersi a Gieddagäts-galgjo[1]. Ella gli consigliò di
prepararsi un vestito così largo da poter essere indossato da due persone allo
stesso tempo, dando tuttavia l’impressione che si tratti di un solo individuo;
sarebbe poi sceso a riva e come in precedenza avrebbe gridato:
«Sorella
cara,
Vieni
a riva!
Il
tuo piccolo piange,
La
tua mucca muggisce,
Vieni
a riva!».
Il
giovane uomo fece come gli era stato consigliato, e quando la sorella gli porse
il bambino acquietato, l’altro uomo a lei invisibile, la prese per la vita e la
tenne stretta. Per poco non gli sgusciava via, perché immediatamente gli si
trasformò tra le mani in un piccolissimo verme, poi in un brutto rospo,
dopodiché in un pezzetto di fieno marino, infine in una zanzara; ma per quanto
continuasse a mutare forma, lui non la mollava, finché alla fine riacquistò la
sua forma umana.
Ora doveva recarsi con loro al castello del re, ma per quanto la pregassero, ella si
rifiutò: non ci sarebbe andata fino a quando Atjjis-ene non fosse stata bruciata
e ogni sua traccia cancellata con zolfo, fuoco e acqua.
Il
principe venne messo al corrente di quanto accaduto, perciò fece subito scavare
una fossa che venne riempita con pece e catrame e poi fece appiccare il fuoco.
Dopodiché vi si recò assieme ad Attjis-ene con il pretesto di andare a guardare
il fuoco che crepitava e, mentre lei vi girava attorno, le diede un bello
spintone da dietro, facendola precipitare nella fossa, così venne bruciata. Poi
prese in sposa la povera fanciulla e si tenne un sontuoso banchetto nuziale;
tuttavia io mi allontanai e non so dire cosa sia successo dopo.
[1] Gieddagäts-galgjo o Gieddagäts-akka
è il nome che la dea Sarakka assume nelle fiabe popolari sámi. A differenza
delle altre divinità sámi di
cui non è rimasto che il ricordo del nome, essa continua a svolgere un ruolo
importante nelle narrazioni popolari. Viene rappresentata come una
donna molto anziana, saggia e sempre benevola che sa tutto ciò che accade sulla
terra e, in caso di situazioni difficili, è in grado di prestare soccorso fornendo
consigli e aiuti. A differenza di Sarakka, nelle fiabe Gieddagäts-galgjo non dimora presso il focolare, bensì a giedda-gätje, ovvero ai confini del
mondo abitato dall’uomo, da cui il suo nome Gieddagäts-galgjo. Essa svolge il
medesimo ruolo della finnica Leskiakka (la “vecchia vedova”). Proprio come quest’ultima, anche
Gieddagäts-galgjo fu un tempo sposata, ma dopo la morte del marito vive
completamente sola e isolata dal mondo. Von Düben mise in dubbio
l’identificazione tra Gieddagäts-galgjo e Sarakka, sostenendo che si trattasse
di una sorta di fata presa dai vicini popoli scandinavi.
Émile-Antoine Bayard, Alphonse de Neuville, Around the moon (1872). Wikimedia Commons. |
Nelle
fiabe popolari sámi
la figlia del sole compare con il nome Njavvis-ene (lett. “la moglie di
Njavvis”), in quanto sposò un uomo di nome Njavvis. Viene sempre dipinta come una
creatura molto benevola, ma anche ingenua che si lascia ingannare da
Attjis-ene, la figlia della luna.
ATTJIS-ENE
E NJAVVIS-ENE
Fiaba
raccolta ad Alten.
Titolo
originale: Attjis-ene und Njavvis-ene
Traduzione
dal tedesco di Elisa Zanchetta
Attjis-ene
e Njavvis-ene erano vicine di casa. Ciascuna di loro ebbe un figlio: Attjis-ene
una femminuccia, Njavvis-ene un maschietto. Un giorno Attjis-ene disse a
Njavvis-ene:
«Vieni,
andiamo a raccogliere bacche di camemoro! Colei che riempirà per prima il
proprio cestino terrà il maschietto, colei che perderà dovrà tenersi la
femminuccia».
Attjis-ene
avrebbe preferito tenersi il bambino, poiché sapeva che crescendo sarebbe
divenuto un cacciatore e quando sarebbe divenuta anziana avrebbe potuto
mangiare bene. Njavvis-ene non aveva naturalmente nessuna voglia di accogliere
questa sfida, ma alla fine si lasciò persuadere da Attjis-ene e accettò la
scommessa.
Così
ciascuna prese un cestino e si accinse a raccogliere le bacche di camemoro. Ma
Attjis-ene si avvantaggiò senza che Njavvis-ene la vedesse: riempì il fondo del
cestino con muschio ed erica, poi si mise a raccogliere bacche che vi adagiò
sopra. Njavvis-ene si affrettava più che poteva per raccogliere più bacche
possibili, ma non servì a nulla.
Mentre
era ancora in gran lavoro, Attjis-ene le gridò:
«Guarda
un po’, il mio cestino è già pieno! Ora il maschietto è mio e tu terrai la
femminuccia!».
E
così fu. Attjis-ene prese il fanciullo e Njavvis-ene la fanciulla, dopodiché
ritornarono a casa.
Quando
il ragazzo fu cresciuto divenne un abile cacciatore. Andava a caccia di renne
selvatiche e colpiva molti animali; Attjis-ene conduceva una vita bella e
piacevole, e non le mancava nulla.
Njavvis-ene
e la fanciulla non avevano invece nient’altro che suole di scarpa e stracci di
pelle con cui poter preparare la zuppa. Rimpiangeva ogni giorno di essersi
comportata in modo così incosciente e di essersi lasciata attrarre dal
competere con Attjis-ene.
Un
giorno Njavvis-ene e la figlia accesero come sempre il fuoco per preparare la
zuppa con stracci di pelle e suole di scarpa. Quello stesso giorno anche il
giovanotto era uscito per andare a caccia di renne selvatiche.
Sul
fare della sera, colpì una renna e la scuoiò. Seppellì la carne tranne alcuni
pezzi grassi che mise nel proprio zaino con le provviste.
Sulla
via per discendere dal monte notò il fumo uscire da un piccolo cumulo di terra.
Ne fu molto meravigliato e, chiedendosi cosa mai poteva essere, si avvicinò per
vedere meglio. Quando vi fu giunto, si infilò nell’apertura da cui usciva il
fumo, vi guardò dentro e vide che sopra il fuoco era appeso un paiolo in cui c’erano
solamente vecchi stracci per pulire le scarpe. Una giovane fanciulla stava
dappresso per controllare il paiolo, buttandoci un’occhiata di tanto in tanto.
Quando si fu voltata, il ragazzo lasciò cadere nel paiolo alcuni bocconi di
carne grassa.
«Mamma!
Mamma! Vieni a guardare!», disse la fanciulla, «dal nostro paiolo si stacca del
grasso!»
«Suvvia,
parli di nuovo a sproposito,» disse la vecchia, «sarebbe cosa buona se i vecchi
stracci per pulire le scarpe deponessero grasso! Ahimè, la tua mamma ha
probabilmente più grasso di noi!»
Il
ragazzo udì tutto ciò che dissero e non riusciva a spiegarsi quale fosse il
nesso. Cominciò a sospettare che colei che lo aveva educato non fosse la sua
vera madre; e più rimaneva in ascolto, più si convinceva che la sua vera madre
fosse colei che abitava lì.
Decise
pertanto di andare a casa e di togliere di mezzo la sua vecchia matrigna,
poiché presumeva che fosse un’incantatrice.
Dopo
che ebbe fato ciò, si recò dalla sua vera madre. Insieme tolsero la vita anche
alla figlia di Attjis-ene e da quel momento vissero felici e contenti.
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