domenica 16 gennaio 2022

Mitologia e folklore sámi: lo Stállu nei racconti popolari sámi

 


Nel folklore sámi, lo Stállu era un orco malvagio che cacciava gli uomini per mangiarseli. Nelle narrazioni popolari viene descritto come un essere stupido e facile da raggirare; assomiglia a una persona, ma è più alto e più grosso, perché è mezzo uomo e mezzo demone. In taluni racconti lo Stállu ha una moglie chiamata Luhtak o Ruhteke che usa una pipa di ferro per succhiare la vita o il sangue ai propri nemici. Ha anche un cane che dev’essere ucciso assieme allo Stállu per evitare che possa far resuscitare il padrone.

Nelle narrazioni sono generalmente i sámi a sconfiggere lo Stállu ricorrendo ad alcuni stratagemmi, ad esempio facendolo cadere in una fossa scavata nel ghiaccio e ricoperta di neve, oppure conducendolo nudo nella foresta o tra i monti fino a farlo morire assiderato. La stupidità e l’ignoranza dello Stállu sono ancora più evidenti quando scambia un tronco travestito da donna per la propria consorte oppure quando un furbo ragazzo sámi lo convince a versarsi stagno fuso negli occhi per ottenere una vista migliore. Nella maggioranza dei racconti lo Stállu è irritabile e scontroso; la collera e la mancanza di autocontrollo vengono dipinte come qualità negative che causano la morte dello Stállu, in quanto in preda alla rabbia non sa più ciò che fa.

Gli Stálut rapiscono le fanciulle sámi per prenderle in moglie. Mentre l’unione tra un ragazzo sámi e una fanciulla ulda è positivo, il rapporto tra una ragazza sámi e uno Stállu non lo è: si crea infatti una situazione pericolosa non solamente per la giovane, ma anche per tutta la sua comunità di appartenenza. Talvolta il padre della fanciulla è costretto ad acconsentire all’unione contro la propria volontà oppure fa di tutto per prevenire un’ulteriore unione sessuale tra i due, anche se molto spesso l’unica soluzione è sbarazzarsi dello Stállu. Solo il padre della fanciulla rapita conosce la verità e sa il modo in cui sconfiggere lo Stállu, pertanto sceglie il figlio più coraggioso per assisterlo nella lotta contro questa creatura. In un racconto si narra che durante il matrimonio il futuro sposo Stállu viene sfidato dal fratello della sposa per stabilire chi tra i due sia il più forte: lo Stállu viene sconfitto e ucciso. La vera minaccia è costituita dalla creatura frutto dell’unione tra i due. In una narrazione lo Stállu muore perché la novella sposa gli brucia i genitali durante la prima notte di nozze, mentre in altri racconti viene descritta la fuga della fanciulla: inseguita dal cane dello Stállu, essa si vede costretta ad uccidere il neonato e a smembrarne il corpo in due parti, in modo da poter distrarre il cane e darsi alla fuga indisturbata. Una volta fatto ritorno alla comunità degli uomini, nessuno si preoccupa per il bambino ucciso, il quale non era evidentemente ritenuto una creatura umana, ma una sorta di mezzosangue.


John Bauer, Trolls with an abducted princess (1915). Wikimedia Commons


Nelle scarse narrazioni in cui compare la figlia dello Stállu, essa diventa umana, perché si integra nella comunità dei sámi e non esita a mutilare o uccidere il padre per il bene della sua nuova famiglia. Lo Stállu maschio che sposa una donna sámi non cambia, invece, la propria natura, ed è pertanto considerato un outsider, un individuo che si oppone ai valori e alle norme dei sámi. In un racconto di Luleå, la fanciulla Stállu fugge dai genitori e si integra nella società dei sámi dove prende marito e ha un figlio. Decide in seguito di fare visita a padre, madre e fratello Stálut: nonna-Stállu chiede di poter tenere tra le sue braccia il nipotino, ma con tale pretesto si allontana, gli spezza il collo e si mette a mangiarne la carne. La medesima fine spetta anche alla figlia Stállu e al consorte: a perpetrare l’uccisione, servendosi di un’asta, è il fratello, mentre la madre-Stállu fa attenzione affinché tutto il sangue venga raccolto, probabilmente per preparare delle salsicce.

Sebbene quasi tutti gli Stálut siano estinti, ci sono ancora dei sámi che hanno Stálut tra i propri antenati: ciò è accaduto perché sono nati dall’unione tra uno Stállu e una ragazza sámi, pertanto sono mezzi Stálut e mezzi uomini. Essi sono leggermente diversi per aspetto e natura. Lo Stállu rappresenta l’alterità, l’estraneo alla comunità, il nemico per antonomasia. Lo Stállu viene da fuori, parla un’altra lingua, che nei racconti può essere il finlandese oppure la lingua propria degli Stálut. L’alterità è enfatizzata dalle abitudini diverse rispetto a quelle dei sámi: in un racconto uno Stállu consiglia alla moglie di utilizzare la carne che stanno mangiano per pulire gli escrementi del figlioletto, oppure si serve della padella per orinare.

Il suo non appartenere alla sfera umana è evidente dal fatto che rapisce i bambini dei sámi per mangiarseli, anche se la medesima sorte capita anche ai propri figli legittimi; egli è inoltre attratto da cibi disgustosi, ad esempio salsicce fatte con il sangue o con le ceneri del proprio cane. Gli Stálut vivono in luoghi non meglio precisati e ci si può imbattere in queste creature semplicemente vagando nel bosco o tra i monti. L’incontro con uno Stállu lascia sempre conseguenze negative: egli è infatti solito ammazzare le renne al pascolo, oppure far ammalare i sámi in cui si imbatte. Le narrazioni descrivono la sua brutalità nei confronti dei sámi e talvolta la lotta contro lo Stállu termina con l’uccisione del sámi che viene scuoiato e lo Stállu si porta a casa la sua pelle. Appare quindi evidente come nei rapporti con lo Stállu i ruoli siano invertiti: lo Stállu è pertanto il cacciatore e i sámi le sue prede. La semplice uccisione dello Stállu non era sufficiente a impedirgli di fare ritorno tra i vivi: in un racconto lo Stállu ucciso viene fatto arrostire sul fuoco, poi il cadavere viene legato con ramoscelli di betulla e gettato sul fondo di un lago e ricoperto di massi.


John Bauer, Bland tomtar och troll (1915). Wikimedia Commons.


La sposa dello Stállu

(fiaba popolare raccolta a Ibestad, nella contea di Troms og Finnmark)

C’era una volta uno Stállu che corteggiava una fanciulla sámi. Dapprima il padre della ragazza non poté fare altro se non promettere che lo Stállu l’avrebbe ricevuta in sposa e quest’ultimo, in cambio, gli sarebbe stato riconoscente. Tra sé tuttavia pensava che probabilmente non ne sarebbe venuto nulla di buono. Il tempo porta consiglio, pensava. Nel frattempo avevano convenuto un giorno in cui lo Stállu doveva venire a prendere la sposa. Il giorno arrivò e con esso anche lo Stállu. Frattanto il sámi aveva preparato un ceppo di legno agghindandolo con i vestiti della figlia: aveva preso una gonna nuova di zecca, una nuova cuffia, una cintura d’argento in corrispondenza della vita, scarpe nuove (Komagar) con nuovi lacci. Quando tutto fu pronto, mise il pupazzo in un angolo della kota, come se fosse seduto, il capo coperto da un pesante velo (bäitalidne), come sono solite indossare le spose sámi.

Quando lo Stállu comparve e vide che la sposa stava seduta nell’angolo indossando i suoi vestiti migliori, ne fu molto felice e tornò subito fuori con il suocero per ricevere le renne che gli spettavano come dote.

Nel frattempo la figlia se ne stava con un numero di renne attaccate alla slitta dietro un’altura ben nascosta dalla kota. Dopo che lo Stállu ebbe ricevuto le sue renne e si apprestava a macellarne una per cena, il sámi sgattaiolò dalla figlia e partirono a folle velocità su per il monte.

Dopo che lo Stállu ebbe ucciso la renna, tornò dalla sua “Nanna”, o sposa, e le disse:

«Cara mogliettina, metti la pentola sul fuoco!».

Ma Nanna non si mosse.

Ah, Nanna è ancora timida!, pensò tra sé lo Stállu, lo farò da me!

La pentola era sul fuoco da un bel po’ quando se ne uscì nuovamente dicendo:

«Nanna, devi spaccare gli ossi con il midollo!».

Ma Nanna non si mosse.

Ah, Nanna è ancora timida!, pensò tra sé lo Stállu, lo farò da me!

Quando la carne fu pronta, prese allora a dire:

«Vieni, Nanna, porta in tavola la carne!».


John Bauer, Nå, hur är det med aptiten fortsatte trollmor (1915). Wikimedia Commons.


Ma Nanna continuava ad essere timida e non si mosse.

Vorrà dire che lo farò da me!, pensò lo Stállu.

Dopo che ebbe portato in tavola la carne, invitò Nanna a mangiare con lui, ma Nanna continuava ad essere timida, così mangiò da solo. Una volta mangiato chiese alla moglie di preparare il letto.

«Na, se sei veramente così timida, Nanna, vorrà dire che farò anche questo da me!... Dai, Nanna, vieni a sdraiarti accanto a me!»

No, ma quanto era timida!

Allora verrò io a prenderti!, pensò lo Stállu, e si avvicinò alla sposa, ma cosa trovò?

Non appena l’afferrò scoprì che si trattava di un ceppo di legno, al che si irritò e si infuriò a tal punto da precipitarsi fuori dalla kota con addosso solamente la camicia e lanciarsi all’inseguimento del sámi tra alture e scogliere. Ma era già troppo tardi. Nel frattempo era tornato un tempo infausto con bufere di neve e freddo pungente e presto lo Stállu incominciò a patire un freddo da cani. Infine comparve la luna all’orizzonte. Quando lo Stállu la notò, pensò che il sámi avesse acceso un fuoco, così si affrettò ad avanzare più veloce che poteva. Ma prima di raggiungere il presunto fuoco per riscaldarsi, si stancò, tanto da non essere più in grado di proseguire. Si arrampicò sulla cima di un abete rosso dove morì congelato. E questa fu la sua fine.


La fanciulla stállu

(fiaba popolare raccolta nel Finnmark svedese)

Titolo originale: "Das Stalomädchen"

Traduzione dal tedesco di Elisa Zanchetta


C’era una volta una coppia appartenente alla razza degli stálut che aveva due figli, un maschio e una femmina. Accadde un giorno che ci fu mancanza di cibo, pertanto i genitori pensarono di macellare uno dei due figli e di mangiarselo; tuttavia non riuscivano ad accordarsi se questa sorte sarebbe toccata al figlio oppure alla figlia. L’uomo voleva risparmiare il figlio, perciò disse alla moglie:

«Im mon juoksa guoddejam! – Non ucciderò colui che porterà il mio arco!».

Tuttavia la donna voleva che fosse la figlia ad essere risparmiata, pertanto urlò con voce stridula e colma di rabbia:

«Im mon snaldo bådnjejam! – Non ucciderò la mia filatrice!».

La figlia, che stava alla porta a origliare, udì questa conversazione, come pure il fatto che, alla fine, la madre dovette cedere e destinare alla morte la figlia, cioè lei. Si dette pertanto alla fuga e giunse a una kota sámi, dove le chiesero chi era e da dove veniva.

«Ah,» disse, «sono fuggita per salvarmi la vita; i miei genitori volevano mangiarmi! Vorreste essere così gentili da assumermi come ragazza addetta ad attingere l’acqua[1]

Così si accordarono. La fanciulla stállu rimase con loro e in seguito divenne la moglie del figlio della famiglia.

Dopo alcuni anni il marito volle andare a trovare i suoceri, ovvero la famiglia di stálut, anche per sapere se era possibile ricevere da loro una dote. La moglie tentò fin dal principio di dissuaderlo da questo suo intento, perché era certa che se ci fosse andato sarebbe stato mangiato: ma non c’era verso, non voleva credere che gli stálut avessero una così gran voglia di carne umana.

«Avrò con me le renne,» disse, «e darò loro un bell’animale grasso; questo sarà sufficiente affinché non ci mangino.»

«Macché! Macché!», rispose la moglie, «vedrai come andrà a finire.»

Caspar David Friedrich, Aurora boreal (1810 ca.). Wikimedia Commons.


La giovane coppia si recò, con armi e bagagli, alla dimora degli stálut, portando con sé anche il loro bambino, un maschietto di un anno. Furono accolti molto calorosamente e il sámi diede immediatamente al suocero una delle renne più grasse, affinché non rimanesse  corto di carne fresca. Anche la suocera sembrava molto felice della loro visita; prese il nipotino dalla culla, lo baciò e disse:

«Figlia cara, mentre allestite la kota, posso tenere io il bambino?».

La figlia non aveva nessuna voglia di affidare il figlio alla madre, ma non riuscì a opporsi.

Ludak[2], la succhiatrice di sangue, prese e andò subito nella kota, staccò la testa al bambino e iniziò a divorarlo. A un piccolo stállu, nato dopo che la sorella era fuggita, stando accanto alla madre e guardandola, venne voglia di assaggiare quella carne che lei stava mangiando, così gliela chiese più e più volte:

«Ninnes, Ninnes, vadde munjen njeputjen tjalmatjest! – Mammina, mammina, dammi un po’ di occhio del figlio di mia sorella!».

«Domattina avrai il seno di tua sorella da rosicchiare!», rispose Ludak.

La figlia, che stava fuori a origliare, diede di gomito al marito e gli disse:

«Ora credi a quello che ti dicevo? Per il momento ha mangiato il nostro bambino e domattina toccherà a noi».

Nel frattempo non potevano fare nulla. Dopo che ebbero terminato di allestire la kota e tutto era sistemato, giunse lo stállu con il figlio maggiore per trascorrere chiacchierando assieme a loro la lunga serata invernale. Mentre parlavano di questo e di quest’altro, lo stállu chiese in confidenza - se così si può dire - al genero:

«Kåsses le tu kassamus naker? – Qual’è il momento in cui dormi più profondamente?».

Il giovane sámi, fingendo di non capire il vero intento della domanda, gli rispose in tutta tranquillità:

«Al sorgere dell’alba, quello è il momento in cui dormo più profondamente».

Poi a sua volta chiese al suocero:

«Qual’è il momento in cui tu dormi più profondamente?».

«Kaks ija pali! – A mezzanotte!», rispose lo stállu.

Dopo che entrambi ebbero finito di porsi domande, si congedarono; lo stállu e il figlio ritornarono nella propria kota, mentre la giovane coppia rimase nella loro. A mezzanotte, però, quando lo stállu dormiva profondamente, si alzarono e fuggirono in gran silenzio prendendo la stessa via dell’andata. Il marito procedeva in testa con il gregge di renne, mentre la moglie, quando fu a una buona distanza dalla kota che avevano lasciato lì com’era, si fermò per vedere cosa avrebbe fatto il padre al sorgere dell’alba; era talmente certa di quanto sarebbe accaduto che aveva attaccato alla slitta una stainak o femmina di renna sterile[3] e così attese dietro un grosso pino che il marito aveva gettato di traverso sul sentiero.

Frants Bøe, Sami on skis in northern lights (1885) . Wikimedia Commons


Non appena l’alba spuntò, lo stállu con il figlio maggiore uscirono dalla kota, entrambi armati di aste. Si affrettarono alla kota allestita dal sámi e ne trafissero le pareti nei vari punti in cui credevano che i due ragazzi stessero dormendo profondamente. Così facendo, il figlio ripeteva:

«Ta le maga tjåkkai, ta le obba tjåkkai! – Questo è andato dritto nel cuore del cognato, questo nel cuore della sorella!».

Ben presto venne Ludak, la succhiatrice di sangue, con una tinozza e sbraitò:

«Alle, ti manatjak mallatsid kålkåtallo! – Cari ragazzi, non lasciate che il sangue scorra via!».

Volevano farne dei salsicciotti. Ma ecco che la figlia dello stállu urlò da dietro il pino:

«Taste le ain obba tjåkke! – Qui c’è ancora il cuore della sorella!».

Al che stállu disse:

«Na, juobe matav! – Me lo dovevo immaginare!». E assieme alla moglie si mise a inseguire la figlia.

Poiché si resero conto che non avrebbero mai raggiunto la stainak, lo stállu iniziò a gridare:

«Aspetta, bambina mia, aspetta! Voglio lasciarti un tesoro nella slittta come dote; pertanto, aspetta, bambina mia!».

Allora la figlia fece fermare la renna e attese fino a quando il padre allungò le mani sulla slitta: in preciso momento gli mozzò le dita con un’accetta che portava con sé e proseguì nella corsa sfrenata.

Lo stállu indicò i monconi alla moglie che era accorsa, gridando:

«Pånne, pånne kä! – Mamma, Mamma, guarda!».

«Potevo bene immaginarmi che non l’avresti fatta finita!», rispose Ludak, «vuol dire che ci proverò io.»

Allora si mise a inseguirla e a gridarle:

«Aspetta, figlia, aspetta, ho qui un raro tesoro che devi ricevere in dote; aspetta un attimo!».

La figlia si fermò ancora una volta e attese fino a quando la vecchia si appoggiò alla slitta: allora mozzò anche a lei le dita delle mani con l’accetta, così che tesoro e dita caddero nella slitta; dopo di che frustò nuovamente la renna e inseguì in folle galoppo le tracce lasciate dalla mandria di renne.

Ancora per molto udirono lo stállu e la moglie continuarono a gridare:

«Tjaske, tuona häppo, mo kadsa kaskosid! – Restituiscici i monconi delle dita, tu spudorata razza infernale!».

E questa fu la fine.

 

 

[1] Presso i sámi costituisce una  delle più umili mansioni.

[2] Questo il nome della moglie dello stállu.

[3] Si riteneva che fossero particolarmente veloci e instancabili.

 

Riferimenti bibliografici

Cocq 2008. Coppélie Cocq, Revoicing Sámi narrative. North Sámi storytelling at the turn of the 20th century. Doctoral dissertation in Sámi studies, Umeå University, Umeå.

Poestion 1886. J. C. Poestion, Lappländische Märchen, Volkssagen, Räthsel und Sprichwörter. Nach lappländischen, norwegischen und schwedischen Quellen, Druck und Verlag von Carl Berold’s Sohn, Wien.


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