Pressi i sámi di Norvegia era diffusa la credenza secondo cui nei loro monti, chiamati Saiwo oppure Passe-Warek (“monti sacri”), abitassero coloro che durante la vita avevano sacrificato con solerzia a tali monti. In ognuno di questi monti credevano dimorasse un angelo celeste oppure un dio sotterraneo che garantiva agli uomini aiuto e protezione.
Quando le persone
morivano, le loro anime andavano nel Saiwo o monte sacro, il cui signore o
proprietario, ugualmente chiamato Saiwo, era stato il loro angelo custode o
spirito protettore mentre erano in vita. La credenza che i morti dimorassero
nei monti sacri è testimoniata anche dal fatto che i noaiddit (gli sciamani
sámi), intenzionati a recuperare l’anima di un malato dall’aldilà, dovevano
recarsi nei Saiwo e dai loro abitanti chiamati Saiwo-Olmak (“uomini del Saiwo”)
oppure Passeware-Olmai (“uomini del Passeware”).
La credenza che la
vita continuasse dopo la morte all’interno di determinati monti, era un cardine
della religione dei sámi. La concezione di un regno dei morti mitico chiamato
Jabmi-aimo, governato da Jabmiakka (la signora del Jabmi-aimo), sembra essere
solamente un’astrazione più recente, creata a partire dalla fusione dei
numerosi regni dei morti concreti, ovvero dei Saiwo.
Gli abitanti del regno
dei morti vivevano e svolgevano le medesime attività dei morti che dimoravano
nel Saiwo, perciò si potrebbe affermare che Jabmi-aimo e Saiwo siano identici.
L’unica differenza consiste nel fatto che Jabmi-aimo era il generico aldilà in
cui venivano accolti i defunti in attesa di essere ammessi al Radien-aimo
(regno del dio supremo Radien), mentre quando ci si riferiva a un defunto in
particolare, si doveva menzionare uno specifico luogo geografico, un
determinato monte sacro, o Saiwo, in cui era possibile incontrarlo.
Il timore reverenziale
dei sámi nei confronti dei monti sacri è dimostrato da molte testimonianze
etnografiche:
- si recavano in
questi luoghi con abiti da festa;
- non volevano abitare
nei pressi del Saiwo o Passe-Ware, altrimenti le urla dei bambini o altri
rumori avrebbero disturbato la divinità che vi risiedeva;
- quando, durante un
viaggio, si trovavano a passare davanti a un monte sacro, non volevano
assopirsi, perché sarebbe stato un segno di scarsa considerazione nei confronti
della divinità;
- nei pressi del monte
sacro gli uomini non dovevano parlare a voce alta, non uccidevano uccelli
oppure animali quadrupedi e non producevano alcun rumore;
- se erano vestiti di
blu, dovevano togliersi questo capo di vestiario fino a quando avevano oltrepassato
il Saiwo;
- alle donne non era
concesso gettare lo sguardo sul monte sacro, avrebbero potuto farlo solamente
coprendosi il volto; non si poteva in ogni caso avvicinare se aveva le
mestruazioni.
Johannes Schefferus, Lapponia (1673). Wikimedia Commons. |
Gli abitanti del Saiwo
erano "olmak", ovvero uomini, tre, quattro o cinque in ogni monte,
inoltre c’erano Saiwo-Nieida, ovvero donne, e bambini. In alcuni dimoravano
famiglie intere, oppure olmak non sposati.
Gli abitanti dei
diversi monti Saiwo si distinguevano per il diverso colore dei loro vestiti. La
loro vita e le loro attività erano come quelle dei vivi; di ciò i parenti ne
erano convinti perché potevano accedere a tali monti: raccontavano di aver
bevuto, ballato, intonato canti magici con i Saiwo-olmak e interrogato oracoli,
nonché di aver visto i propri congiunti. Chi vi accedeva si era sentito
chiamare per nome, si era intrattenuto presso di loro per intere settimane,
fumando tabacco e consumando bevande alcoliche; avevano ricevuto da loro
consigli, ammonimenti, previsioni e insegnamenti per cui erano molti grati.
Anche i Saiwo-olmak
potevano uscire dai monti sacri per recarsi dai congiunti: accompagnavano a
casa i loro visitatori, avevano rapporti con loro, non solo nei monti, ma anche
nelle loro abitazioni, dove si recavano a trovarli.
Attraverso scongiuri e
sacrifici i vivi riuscivano a riportare sulla terra dei vivi un membro della
propria famiglia, il padre oppure la madre, che sovente rimaneva presso di loro
da uno a quattro anni, se non di più, come guardiano delle renne.
Su volontà dei loro
abitanti, i monti Saiwo venivano venerati con determinati doni sacrificali che
consistevano in tabacco, burro o grasso. Spesso si trovava sul Saiwo una pietra
con particolari sembianze umane che dava il nome al luogo e sulla quale
venivano eseguiti i sacrifici. Questa pietra poteva essere cosparsa anche di
sangue e usata per fare profezie, perciò talvolta era detta anche Sieide.
Le fonti relative ai
sámi di Svezia non sono così dettagliate come quelle dei sámi di Norvegia, ma
possiamo evincere che le concezioni e le usanze connesse alla venerazione dei
defunti fossero molto simili. I sámi di Svezia credevano che l’anima
continuasse a vivere, in particolare perché attraverso la loro arte magica
avevano riconosciuto le anime dei loro defunti nell’aldilà. I morti si univano
al popolo che dimorava sotto terra: alla stregua dei sámi di Norvegia, quando
una persona era mortalmente malata, il noaiddi (lo sciamano sámi) doveva mettersi
in viaggio per giungere presso un popolo sotterraneo che camminava con i piedi
appoggiati a quelli dei viventi ed era di aspetto amorevole. Si incontra anche
qui un popolo di morti che viene visitato dai viventi e dal quale deve essere
strappata l’anima del malato, come nella concezione norvegese del Saiwo. I
racconti popolari, anche per i sámi di Svezia, narravano di mortali che erano
stati accolti dagli abitanti del sottosuolo all’interno dei loro monti: anche
presso i sámi di Svezia si incontra la venerazione del monte sacro, chiamato
Passe-Ware.
Bibliografia
Wolf
von Unwerth, Untersuchungen über Totenkult und Ódinnverehrung bei Nordgermanen
und Lappen mit Exkursen zur altnordischen Literaturgeschichte, Breslau 1911.
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