Nei racconti popolari sámi compare una figura nota con i
nomi di ulda (plurale uldras), ul’da, hal’de o gufihtar.
A seconda delle narrazioni, essi possono essere creature ctonie o invisibili all’occhio umano,
bellissime fanciulle seducenti oppure una sorta di spiriti adiutori che vanno
in aiuto allo sciamano sámi. Essi non risiedono
in un mondo opposto a quello dell’uomo, bensì parallelo, pertanto è possibile
che queste due sfere entrino in contatto, implicando un necessario adeguamento
dei sistemi, al fine di trovare un equilibrio. Vediamo di analizzare insieme i
tratti principali di questa figura del folklore sámi.
Gli uldras sono creature ctonie o invisibili che possono essere d’ausilio oppure arrecare danno all’uomo. Da sempre in stretta relazione con i sámi, si dice che essi abbiamo appreso dagli uldras la pratica dello joik, le conoscenze necessarie per divenire noaidi (termine che designa lo sciamano sámi), nonché le pratiche di guarigione.
Diventano ostili se maltrattati oppure se si manca loro di rispetto. Inoltre, secondo un’antica credenza sámi, gli uldras scambiavano il bambino lasciato solo nella kota con una propria creatura (sovente un loro anziano): se i genitori si accorgevano subito dello scambio e iniziavano a frustare il bambino con rami ardenti di ginepro, gli uldras avrebbero restituito il bambino, riprendendosi il proprio, altrimenti i genitori avrebbero continuato a vivere con la creatura-ulda che, a dispetto dei normali bambini, non cresceva ed era debole oppure disabile. Per proteggere il bambino gli venivano stretti attorno alla fronte tre lacci colorati ornati con bottoni d’argento, in modo da impedire lo scambio che poteva avvenire solo prima del battesimo, dopo di che gli uldras non avrebbero più osato avvicinarsi al bambino benedetto con la croce e a cui era stato imposto un nome. Un racconto proveniente dal comune norvegese di Loppa narra di una donna che, dopo essersi accorta che il figlio le era stato scambiato, prende un ramo e si mette a picchiarlo fino a farlo urlare dal dolore; giungono un uomo e una donna che la implorano di non tormentare più il loro anziano padre e le restituiscono il figlio. (cfr. il racconto norvegese De underjordiske, II, "Gli esseri sotterranei, II", di Theodor Kittelsen [in Taglianetti 2017, pp.54-57]).
John Bauer, The changeling (1913). Wikimedia Commons. |
Gli uldras possono essere visti dalle persone in rare occasioni e l’incontro avveniva per caso, oppure per loro iniziativa. Un giorno due fanciulle stavano facendo una passeggiata e all’improvviso una delle due, Magga, una bellissima ragazza, scomparve. Il giorno successivo riuscirono a rincasare insieme, ma Magga era stata gravemente ferita dai gufihtar tanto da riuscire a malapena a parlare e camminava così male da far pietà. Magga narrò che mentre era presso i gufihtar aveva visto le persone che la stavano cercando e che talvolta avevano camminato molto vicino a lei. La sua scomparsa e il fatto che non potesse essere vista dagli umani indica che era stata confinata in un mondo interdetto a coloro che non avevano il consenso del popolo sotterraneo. Quando una persona veniva rapita dagli uldras era fondamentale che non toccasse il loro cibo, altrimenti non avrebbe più fatto ritorno tra gli uomini.
John Bauer, I julnatten (1913). Wikimedia Commons. |
Si narra che gli uldras siano vestiti come i sámi e che sorveglino e gridino alle renne facendo abbaiare i cani e suonare le campanelle degli animali, ma rimanendo sempre invisibili all’uomo. Se una persona avendo udito il rumore chiede al compagno: «Hai sentito?», non si udirà più alcun rumore. Gli uldras possiedono renne, mucche, pecore e seconda che essi siano allevatori oppure fattori. Se ne vanno in giro con suopunki (“lazo”) e redini gettati sulle spalle e fumando tabacco. Hanno gli stessi tratti fisici distintivi del popolo sámi. Indossano inoltre il gákti, tradizionale abito sámi strettamente connesso alle proprie origini, i cui motivi decorativi forniscono informazioni sul luogo d’origine di chi lo indossa. Esistono diversi tipi di uldras, proprio come ci sono differenti gruppi di sámi: alcuni sono colonizzatori e fattori, altri sono dediti all’allevamento delle renne. Il mondo degli uldras viene pertanto presentato come un riflesso del mondo dei sámi: si tratta di un mondo comprensibile all’uomo, tuttavia inaccessibile. Gli uldras non sono considerati outsider, pertanto il matrimonio tra sámi e uldras veniva tollerato.
Agli uldras piacciono le persone che parlano in maniera appropriata; si dice a tal proposito che adorino gli individui dai capelli neri, onesti e che sanno parlare bene. Tutto ciò allude anche alla capacità di saper parlare o rimanere zitti all’occorrenza. Gli uldras devono essere rispettati attraverso sacrifici e tenendo presente la loro potenziale presenza quando vengono allestiti nuovi villaggi, in quanto essi appartengono all’ambiente a cui l’uomo deve adattarsi. Un racconto narra di un uomo che vide una mucca-ulda e l’amico gli consigliò di lanciare un coltello sopra l’animale in modo che finisse dall’altro lato: in questo modo poté entrare in possesso della mucca-ulda. Poco dopo si presentò un’anziana signora che voleva riprendersi la mucca e loro acconsentirono senza opporre resistenza, poiché erano buone persone. Lo stesso compare in altre narrazioni in cui un uomo, che si era impossessato di una mucca-ulda, la restituisce a un’anziana ulda, ricevendo in cambio un anello d’oro.
Gli uldras o
gufihtar posso essere delle bellissime ragazze e molte storie narrano di
giovani ragazzi che vengono abbagliati dalla loro irresistibile bellezza e
seduzione: essi si invaghiscono di tali fanciulle ma appena tentano di
avvicinarsi per conquistarle, esse scompaiono e il giorno seguente, quando il
ragazzo fa ritorno nello stesso luogo per incontrarla nuovamente, sente
solamente una voce femminile intonare uno joik e immagina possa trattarsi della
sua amata. Se la fanciulla-ulda viene privata dei propri averi, essa non
può fare ritorno alla casa dei genitori. In un racconto un ragazzo le sottrae
la sciarpa di seta e la cintura e se ne torna a casa; la fanciulla lo
raggiunge, si mette sulla soglia, chiedendogli con insistenza che le vengano
restituiti i suoi averi, altrimenti il padre e la madre l’avrebbero
rimproverata in modo sempre più severo. Infine, le restituisce quanto sottratto
e lei torna a casa, ma il contatto con il ragazzo e il fatto simbolico che lui
abbia tenuto con sé i suoi indumenti, implica che la fanciulla-ulda è
intrappolata tra due mondi; i suoi genitori non le avrebbero mai permesso di
donare parte della sua femminilità a un uomo, seppur rappresentata della sua
sciarpa e della cintura. Toccare una siffatta fanciulla ha serie conseguenze
per il giovane. In una fiaba intitolata Das ulda-Mädchen (“La fanciulla-ulda”), il giovane punge con un ago la ragazza, facendole perdere qualche
goccia di sangue: quando un ulda perde sangue diventa umano, dopo che una
ragazza-ulda è stata toccata, ella è per sempre intrappolata nel mondo degli
uomini ed è costretta a contrarre matrimonio con il ragazzo umano.
John Bauer, Sagan om äldtjuren Skutt och lilla prinsessan Tuvstarr (1913). Wikimedia Commons. |
La fanciulla ulda
Titolo originale: Das Ulda-Mädchen
Traduzione dal tedesco di Elisa Zanchetta
C’erano una volta due giovanotti che corteggiavano la stessa fanciulla. Quando giunse la primavera i due giovanotti con la fanciulla, in compagnia di altre persone, si recarono su un’isola situata al largo, perché dovevano pescare. Sull’isola erano state costruite delle casupole per pescatori, perché da tempo immemore questa località era nota come un eccellente luogo di pesca dove le persone si intrattenevano generalmente fino all’autunno.
La fanciulla ed entrambi i giovanotti abitavano nella medesima casupola e pescavano nella stessa barca. A poco a poco uno dei due ragazzi iniziò a notare che la fanciulla gli dedicava minori attenzioni rispetto al suo compagno. Perciò ne era molto irritato e rifletteva sul modo in cui potersi sbarazzare del rivale.
Quando i pescatori intrapresero il viaggio di ritorno, fece in modo che lui, la fanciulla e il compagno fossero gli ultimi a lasciare il luogo di pesca. Quando poi anche loro ebbero portato le loro cose nella barca, ed erano già pronti per allontanarsi dall’isola, il giovanotto a cui la fanciulla non badava disse al suo compagno:
«Ah,
mi sono dimenticato il coltello su nella casetta; sii buono e fai un salto
a prendermelo».
Il ragazzo ci andò senza sospettare il benché minimo inganno, ma non si era allontanato di molto che il compagno sciolse gli ormeggi e partì remando assieme alla fanciulla.
Ora era completamente solo sull’isola e per aiutarsi non disponeva altro che del coltello lasciatogli dal compagno. Si costruì un arco con il quale uccideva uccelli marini che arrostiva sul fuoco. In questo modo campò fino a Natale. Alla vigilia ammassò una maggiore quantità di legna da ardere che impilò davanti l’ingresso della casupola per evitare di andare a raccoglierne dell’altra durante il periodo natalizio.
Di sera, dopo aver ultimato la catasta di legna, si sedette un po’ sull’uscio a guardare verso la terraferma e fu sopraffatto dallo struggimento. Fu allora che notò una barca diretta verso l’isola. Il giovanotto ne fu molto felice, perché credeva fossero persone che venivano sull’isola. Ma a mano a mano che la barca si avvicinava gli sembrò che fosse essa stessa di strana foggia e, dopo che ebbero ormeggiato e le persone scesero a terra, notò subito che non erano Albma-olmuk, cioè persone di questo mondo o vere persone, bensì ulda-olmuk. Si appiattì dietro la catasta di legna e si nascose in modo da non essere visto.
John Bauer, Trollmor och pojken smögo sig ut ur berget (1914). Wikimedia Commons. |
Le
persone scesero sull’isola: si trattava di una numerosa comunità che aveva con
sé ogni sorta di cianfrusaglie. Tra le donne c’erano due giovani fanciulle molto
belle e graziosamente vestite: quando l’intera schiera entrò nella casupola, notò
che ciascuna delle ragazze portava una cassetta di vettovaglie. Dopo che tutte
le cianfrusaglie furono portate nella casupola, entrambe le fanciulle uscirono
nuovamente per fare un giro dell’isola; fu allora che notarono il giovanotto appiattito
dietro la catasta di legna. Dapprima si spaventarono un po’ ed erano sul punto
di scappare, ma poiché il giovanotto se ne stava lì tranquillo, si avvicinarono
e iniziarono a ridacchiare, ridere e a fargli ogni sorta di scherzi.
Il giovanotto aveva uno spillo nella manica della giacca. Mentre gli saltellavano intorno, strattonandolo di tanto in tanto, attese il momento propizio e punse una della due fanciulle alla mano, tanto da farla sanguinare. La fanciulla punta iniziò a gridare e a lamentarsi. Allora accorsero anche gli altri che si trovavano nella casupola per vedere cosa fosse successo; ma non appena videro il giovanotto tornarono subito indietro, raccolsero in fretta e furia quanto avevano portato - quanto ciascuno riusciva a portare - e si allontanarono.
In un istante tutti erano scomparsi, persone, cianfrusaglie e barca, eccetto un mazzo di chiavi rimasto sul tavolo e la fanciulla che era stata punta dal giovanotto: ella era completamente priva di forze e indifesa.
«Ora mi dovrai prendere in moglie,» disse la fanciulla, «perché mi hai punta, tanto da farmi sanguinare!»
«Certo, eccome no,» rispose il giovanotto, «lo farò volentieri, ma come pensi che potremo trascorrere l’inverno sull’isola?»
«Non c’è nessun motivo di preoccuparsi,» disse la fanciulla, «se mi prometterai di prendermi in moglie, avrai una parentale benestante!»
Il giovanotto prestò giuramento e così vissero insieme sull’isola fino alla primavera quando le persone uscirono nuovamente a pescare e con le quali fecero poi ritorno sulla terraferma.
«Dove dobbiamo recarci ora?», chiese la fanciulla al giovanotto.
«Non lo so,» disse il giovanotto, «tu cosa ne pensi?»
La fanciulla disse che sarebbe stato meglio stabilirsi nel luogo in cui vivevano i suoi genitori, «ma solo se lo vorrai», aggiunse.[1]
John Bauer, Tuvstarr
(1913). Wikimedia Commons. |
«Perché no?», rispose il giovanotto e così si misero per via e trovarono un posto tranquillo dove abitare.
«Ora devi misurare tu stesso lo spazio che sarà occupato dalla casa,» disse la fanciulla, «puoi sceglierlo grande o piccolo, come su vorrai!»
Il giovanotto prese le misure.
Quando
di sera andarono a coricarsi, la fanciulla gli disse:
«Se di notte mentre dormiamo dovessi udire qualche rumore, non dovrai alzarti per andare a vedere che cos’è!».
Di notte egli udì rumore di muri in costruzione, di legna che veniva spaccata per innalzare le pareti, di ceppi spaccati e di martellate, ma non si mosse. Al mattino, quando lui e la fanciulla si furono alzati, si guardarono attorno ed ecco lì ergersi la casa bell’ e pronta in ogni singola parte.
«Ora devi misurare lo spazio che sarà occupato dalla stalla,» gli disse la fanciulla il giorno seguente, «sceglilo in modo che non sia troppo grande, ma neppure troppo piccolo!»
Il giovanotto prese le misure.
Anche quella notte udì rumore di muri in costruzione, di legna che veniva spaccata per innalzare le pareti e di martellate. Al mattino la stalla era ultimata con pilastri, secchi per il latte e ceppi, soltanto le vacche mancavano. Ora la fanciulla chiese al giovanotto di misurare lo spazio per la dispensa, che poteva essere grande quanto voleva. Quando anche la dispensa fu pronta, lo invitò ad andare dai propri genitori. Vi si recarono e si intrattennero tutto il tempo che a lei piacque. Quando poi giunse il momento di fare ritorno a casa, la fanciulla disse al giovanotto:
«Dopo che ci saremo congedati e staremo per andarcene, fai molta attenzione ed esci di casa più veloce che puoi!».
Il giovanotto fece come gli aveva detto la fanciulla e proprio nell’istante in cui uscì dalla porta, il padre gli scagliò contro un grande martello. Se non fosse stato così veloce, ma avesse indugiato anche solo per un attimo, il padre gli avrebbe mozzato entrambe le gambe.
Quando poi ebbero percorso un buon tratto della strada del ritorno, la fanciulla disse:
«Ora non dovrai voltarti fino a quando non sarai giunto a casa, qualsiasi cosa tu udirai o percepirai!».
Il giovanotto prestò giuramento, ma quando ebbe varcato la soglia di casa, non riuscì più a trattenersi e si voltò: nel recinto c’era l’esatta metà di una grande mandria inviata dai suoceri, l’altra metà stava ancora fuori e scomparve all’istante.
Dopodiché
la coppia si fece unire in matrimonio dal sacerdote, ebbero dei figli e vissero
felici e contenti. L’unica cosa che non piaceva all’uomo era il fatto che la
moglie sparisse di tanto in tanto senza che lui riuscisse a scoprire dove si
recava. Quando un giorno si lamentò, la donna, che amava molto il consorte,
gli disse:
«Caro
marito, se non ti sta bene che io qualche volta me ne vada, non devi fare altro
che piantare un grosso chiodo sulla soglia di casa, così io non potrò più
uscire, a meno che non sia tu a volerlo!».
[1] Nei racconti popolari gli uldras
consigliano ai sámi che stanno fuggendo da un pericolo di erigere la propria kota
nel loro mondo sotterraneo per vivere indisturbati.
La gente del mare
Fiaba raccolta a Nässeby
Titolo originale: Meerleute
Traduzione
dal tedesco di Elisa Zanchetta
C’era
una volta un uomo che aveva due figli: uno era litigioso e bestemmiava sempre,
l’altro era una pasta d’uomo e pacifico. Un giorno uscirono in mare per
pescare. Dopo che ebbero riempito la barca di pesci remarono nuovamente verso
la riva, accesero il fuoco e prepararono la cena. Dopo aver mangiato, il padre
e i due figli si distesero per dormire, ma il minore non aveva sonno. Per passare
il tempo andò a camminare lungo la riva del mare. Lì notò una piccola
imbarcazione a remi che si stava avvicinando all’isola; si sedette su una
roccia per attendere e vedere chi se ne veniva tutto solo soletto. Quando la
barca si fu avvicinata, qualcuno a bardo gridò al ragazzo:
«Cosa
te ne fai, tu, lì seduto a guardare?».
«Ah,
volevo solo vedere chi stava arrivando», rispose il ragazzo.
Nella
barca c’era un anziano signore.
«Sali
sulla barca, ragazzo mio, andremo al largo a pescare con le reti a mano», disse
il vecchio.
Il
giovane saltò in barca e remarono fuori dall’insenatura. Tuttavia, una volta giunti
in mezzo al fiordo, si alzò una nebbia così fitta da non riuscire in alcun modo
a vedere la terraferma.
«C’è
una nebbia così fitta», disse il ragazzo, «che temo non rivedremo mai più la
terraferma.»
«Ah,
non ti preoccupare,» disse il vecchio, «non ce n’è alcun bisogno.»
Dopo
che ebbero remato per un altro po’, videro in lontananza qualcosa di non ben
definito che assomigliava a un villaggio.
«Che
razza di villaggio è quello?», chiese il ragazzo.
«È
il nostro villaggio», disse il vecchio.
Quando
si furono avvicinati a terra, i figli del vecchio risalirono la riva per
aiutarlo con la barca. Il ragazzo iniziò ad arrabbiarsi, non riusciva a
immaginare dove era capitato: non conosceva né il paese, né la riva, né il
popolo.
«Vieni,
seguimi e andiamo nel villaggio!», disse il vecchio.
Il
giovane indugiò un attimo, ma il vecchio lo pregò in modo così gentile che
infine dovette andare con lui. Quando vi furono giunti, il vecchio portò da
mangiare per sé e per il giovane, invitandolo a servirsi. Il giovanotto non osò
toccare nulla.
«Bora,
bora! – Magia, magia!», disse il vecchio, «non ti deve mancare nulla di ciò
che abbiamo da offrirti; noi non siamo come gli altri gufihtarak, cioè gli
esseri sotterranei, che vivono nelle profondità della terra!»[1]
Così
mangiò. Dopo che ebbero mangiato, entrambi i figli del vecchio vollero uscire a
pescare.
«Se
ne hai voglia, puoi andare a pescare con loro», disse il vecchio.
E
così fece il ragazzo. Una volta ritornati dal largo, dovevano portare i pesci
al mercato per venderli. Il ragazzo voleva andare con loro, ma il vecchio gli
disse:
«È
meglio che tu resti qui fino a quando i miei figli avranno fatto ritorno dai
loro commerci. Ne riceverai anche tu del ricavato, non temere, non ti mancherà
nulla. Non appena i miei figli avranno fatto ritorno, anche tu dovrai ritornare
dai tuoi! Cosa vuoi per aver partecipato alla pesca: farina, trinello o soldi?»
«Ah,
meglio i soldi», disse il ragazzo. Dopo che entrambi i figli si furono
allontanati, il ragazzo fece ritorno al villaggio con il vecchio.
«Se
ne hai voglia,» disse il vecchio, «puoi andare a fare un giro in città e
guardarti attorno. Ma dovessi vedere qualcosa che non comprendi, non dovrai chiedere
a nessun altro se non a me. Più tardi sarò io a spiegartelo.»
Così
il ragazzo si allontanò. Dopo aver passeggiato per un po’, scorse un gran numero
di capre che si aggiravano sulle piazze e di tanto in tanto annusavano in aria
e addentavano qualcosa. Dopodiché vide anche che dalla nebbia che copriva tutto
come il tetto di una stanza, pendevano lenze a mano. Ecco una delle capre
abboccò a un amo che la sollevò attraverso la nebbia, fino a farla scomparire.
Il ragazzo vide tutto ciò e si meravigliò chiedendosi come tutto ciò fosse connesso,
ma non disse nulla. Subito dopo vide nuovamente una capra abboccare a un amo e
venire trascinata in alto attraverso la nebbia, proprio come la prima.
Trovò
ciò così strano e particolare che ritornò dal vecchio per ottenere spiegazioni
al riguardo. In quell’istante giunsero anche i due figli che si erano recati al
mercato per vendere il pesce e il ragazzo ottenne come ricompensa cento
talleri. Dopodiché il vecchio prese con sé il ragazzo nella sua barca e si avviarono
sulla via del ritorno.
Durante
il viaggio il ragazzo chiese:
«Buon
vecchio, ascolta un po’, cosa può voler dire: sulle piazze ho visto capre
annusarsi intorno e, prima una, poi un’altra, abboccare alle lenze che
pendevano dalla nebbia e venire sollevate in aria».
Così
il vecchio iniziò a spiegare:
«Le
lenze a mano che hai visto appartengono al tuo popolo e le capre che hai visto
sono i suoi pesci; le tue persone si trovano sopra il mare e pescano; lì sopra
pescano pesci, proprio come hai visto le capre abboccare alla lenza. Le capre
non sono nient’altro che pesci, come vedi, ma qui sotto da noi non hanno questo
aspetto. Noi siamo infatti gufitarak del mare e qui si trovano le nostre dimore,
i nostri villaggi, qui si svolge la nostra vita e tutto il resto».
Proseguirono
per un po’ il viaggio e poi si imbatterono nella medesima fitta nebbia che
avevano trovato all’andata; quando ne furono usciti videro nuovamente la
spiaggia che il ragazzo ben conosceva. Il vecchio ricondusse il ragazzo al
punto in cui lo aveva preso con sé e infine gli disse:
«Non
devi dare a tuo fratello dei soldi che hai ottenuto da noi e non devi
raccontarlo a nessuno, eccetto a tuo padre!».
Il
vecchio non voleva concedere nulla al fratello maggiore, perché era talmente
pieno di cattiveria e imprecava sempre: i gufihtarak non riescono infatti
a sopportare le persone a cui piace bestemmiare.
[1] Secondo
la credenza popolare, colui che mangia del cibo offerto dagli esseri
sotterranei, rimane per sempre presso di loro.
Dahl Hans, By the fjord. Wikimedia Commons. |
Riferimenti
bibliografici
Cocq 2008. Coppélie Cocq, Revoicing Sámi narrative. North Sámi storytelling at the turn of the 20th century. Doctoral dissertation in Sámi studies, Umeå University, Umeå.
Karsten 1955. Rafael Karsten, The religion of the Samek: ancient beliefs and
cults of the Scandinavian and Finnish Lapps, Brill, Leiden.
Poestion 1886. J. C. Poestion, Lappländische Märchen, Volkssagen, Räthsel und
Sprichwörter. Nach lappländischen, norwegischen und schwedischen Quellen, Druck
und Verlag von Carl Berold’s Sohn, Wien.
Taglianetti 2017. Theodor Kittelsen, Troll, a cura di Luca Taglianetti,
Vocifuoriscena, Viterbo.
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