giovedì 12 aprile 2012

Figli di un dio che non si è neppure preso il disturbo di esistere

Riflessioni sulla genesi e strumentalizzazione del mito


«L’uomo pensante ha la singolare qualità di inventare un’immagine fantastica là dove è un problema irrisolto, e di non potersene liberare, neppure quando il problema è stato risolto e la verità manifesta.»
J.W. Goethe, Teoria della natura.


Questo è un mondo dove spesso vincono i cattivi. Non come nei film, non come nei videogames, dove è il buono, l’eroe, a vincere. Ed era così anche nella notte dei tempi, quando ancora il linguaggio stava cercando di uscire dalla sua pozza primordiale. Passi incerti, le parole sono state l’ultima conquista dell’evoluzione primitiva, ma passi tutti importanti.
Immaginiamo le prime parole: perché sono nate, a quali bisogni rispondevano? Subito, se ci immedesimiamo, viene da pensare che l’uomo del paleolitico abbia sputato la prima parola di senso compiuto di fronte ad un pericolo. Sarà stata una parola di poche sillabe, e perdersi ad immaginare quale, sicuramente non ce la renderà, in questo gioco di ipotesi. Ma facciamo che fosse un’esclamazione, semplice semplice. Un «Argh!», da cui etimologicamente è poi forse derivato «argomentare». Il primo che avrà detto questo «Argh!» avrà trovato un altro che, guardandolo spaesato… Insomma, gli scemi del villaggio ci sono ancor oggi, figuriamoci allora, che tutti vivevano nei villaggi. Ecco, questo scemo del villaggio avrà detto qualcosa come «Vhe? Stazzè?» Da cui in seguito forse è derivato «Che ca… che cavolo c’è?»
Per arrivare a questo semplice scambio di battute, così a guardarla col senno di poi, mimino ci saranno voluti cinquemila anni. Ossia, più tempo che andare a pagare un bollettino in posta, unica occasione in cui si sperimenta in modo incisivo e indimenticabile lo sfinente senso dell'eternità.

B.C. © J. Hart

Ma torniamo ai nostri progenitori. La loro vita era complicatissima. Se anche avessero avuto la televisione, tempo per guardarla non gliene sarebbe scappato da nessuna parte. Vivevano in edifici aggiustati alla meno peggio, che venivano giù al primo terremoto. Sì, questo in fondo non è molto cambiato in diecimila e passa anni di storia. Scusate, esempio sbagliato. La loro vita era complicatissima perché non c’erano i supermercati, il riscaldamento e i frigoriferi. Nel loro armadietto per medicinali non c’erano l’aspirina, i cerotti e neppure l’acqua ossigenata, figuriamoci gli antibiotici!
Ah, non avevano un armadietto per i medicinali.
E, per qualche ragione, finirono per capire che la sola ancora di salvezza era una. Quel primo «Argh!», e la risposta «Vhe? Stazzè?».


Parlare, comunicare: questo poteva fare la differenza. E, se all’inizio la parola era poco dissimile – per funzione – da un urlo o da un grugnito, in seguito divenne tutt’altra cosa. Provate a pensare che razza di avventura dev’essere stata cercare di inventare parole, una dopo l’altra. Sulle prime, immagino che si saranno limitati ad indicare ciò che avevano attorno, pronunciando dei grugniti sempre diversi – che significavano clava, mammut, acqua, x-box – senza imbastire davvero una frase complessa, con tanto di grammatica e sintassi. Queste sono cose che hanno inventato a bella posta i professori di italiano millenni dopo, solo per il gusto di far impazzire i loro allievi. Però, attenzione: la colpa non è solo dei professori di italiano. La grammatica – seppure a livello istintivo – nacque insieme al linguaggio. Non lo sapevano, ma la inventarono gli uomini del paleolitico, con quel loro rozzo cercare forme di esprimersi che non servissero solo ad avvertire di un pericolo, ma anche a far capire che ti serviva qualcosa, o che lo volevi. «Passami la clava», «Scuoia il mammut», «Rinforza il pilastro sinistro della palafitta», «Ora alla x-box ci gioco io, quindi fatti da parte, smamma».
Così, tenta e ritenta, finirono per elaborare un linguaggio in grado di trasmettere alle nuove generazioni quel che era diventato un patrimonio. Non sapevano cosa significasse questa parola, ma conoscevano il suo valore. E dentro ci mettevano tutto: come costruire delle rudimentali armi, come modellare dei recipienti confango e argille, come conservare la carne degli animali uccisi e tante altre informazioni indispensabili.


A tramandare il sapere, pare fossero i «vecchi» del villaggio, ossia gli uomini con maggiore esperienza e per questo ritenuti più saggi. Non si trattava, però, di nonnini canuti, curvi e malfermi sulle gambe, dato che la durata della vita media, all’epoca, di rado superava i venticinque o trent’anni. Tuttavia, quei vecchi lì non perdevano tempo in stupidi trastulli (x-box a parte, che era una droga già allora) e quindi una sorta di saggezza riuscivano ad accumularla, pur avendo così pochi anni sulle spalle. Che ne fossero consci o meno, avevano la responsabilità della successiva evoluzione dell’uomo, e facevano tesoro di ogni minuto che era loro concesso.
Per farla breve, i loro racconti erano qualcosa di simile all’odierna internet, perché tutto il sapere era lì, nelle voce, nel ricordo che si componeva in forma linguistica, per quanto approssimativa.
Ai tempi, però, si era ancora molto lontani da una concezione scientifica del mondo, mancavano le basi razionali per strutturarla. Sarebbe come pretendere, oggi, che un bambino di tre anni possa andare oltre una percezione basata sull’immaginifico. Pertanto, i nostri avi univano alle informazioni tecniche fondamentali decifrazioni pittoresche dei fenomeni naturali, insegnamenti di pratiche rituali, interpretazioni del mondo imbevute di elementi magici che, nel loro insieme, rappresentavano qualcosa di simile a un romanzo fantastico o surreale. Ossia, ciò che oggi chiamiamo «mito».


Ma cos’è, allora, il mito? Davvero un raccontare, un sognare ad occhi aperti? O è troppo superficiale arrendersi a questa conclusione?
L’etimologia ci aiuta e, nel contempo, ci frastorna. Se è vero che il termine greco mŷthos significa «racconto», non bisogna dimenticare la radice indoeuropea di questa parola, *mēwd
ʰ «occuparsi di qualcosa, prestare attenzione, lamentarsi», da cui sono derivati il neopersiano mōja «lamento», il gotico maudjan «ricordare», il lituano maudžiù, maũsti «bramare», il paleoslavo myslĭ «pensiero», l’antico irlandese smúainid «io penso». (1)


Forse potremmo azzardare l’ipotesi che il mito sia qualcosa che si spinge ben oltre il racconto. Che il mito sia la testimonianza del pensiero umano alle sue prime armi, nel tentativo di definire la realtà, di darle un senso, tra fantasia e ricordo.
Fosse stato un fenomeno circostanziato, presente in una sola civiltà, forse nessuno si sarebbe mai interrogato al riguardo. Invece, pur con molte varianti, la narrazione mitologica è presente in tutte le civiltà del lontano passato e, curiosamente, alcuni tratti ricorrono o, meglio, si rincorrono dall’una all’altra.
Il confronto di analogie e differenze ci consente di interpretare il mito come una spiegazione istintiva e rassicurante ai problemi fondamentali che l’uomo si è posto fin dagli albori della civiltà: a cosa sono dovuti i cicli naturali? Cosa provoca i temporali? Come mai di tanto in tanto la terra trema? Cosa sono tutte quelle luci che si accendono di notte in cielo? E, soprattutto, come si è originato il mondo in cui viviamo? Perché esistiamo, perché moriamo? Cosa succede dopo la morte?


Linus © Schultz

Se i nostri avi avessero avuto a disposizione il metodo e le conoscenze di Galileo, si sarebbero dati risposte diverse. Ma non erano risposte che cercavano, la loro non era una curiosità, bensì una paura, e la sola cosa che desiderassero era una coperta sotto la quale nascondersi, un po’ come fanno i cani che, allo scoppio di un temporale, o ai botti di fine anno, si rifugiano sotto una panca o tra le gambe del loro padrone.
Sì, però i cani non parlano. O, perlomeno, non risulta che abbiano elaborato un linguaggio complesso, con tanto di superlativi, avverbi, figure retoriche e perifrastiche passive.
Gli uomini sì. Nel loro crescere con il linguaggio che via via inventavano, finirono per immaginare un tempo precedente al mondo, alla vita terrena, in cui l’uomo era tutt’uno con le divinità. Quest’era precedente, l’età dell’oro, era concepita come un perduto paradiso di perfezione, con cui mantenere un contatto. Ma, quando cercarono di riunirsi agli dèi, con tanto di richiesta di amicizia su Facebook, non ricevettero alcuna risposta diretta. Divinità snob, con la puzza sotto il naso.
Che civiltà molto diverse siano comunque giunte ad elaborare forme analoghe di mitologie, dà da pensare: si erano messi d’accordo? Improbabile, visto che spesso i rapporti tra l’una e l’altra erano radi, almeno all’inizio. Forse, allora, il mito è frutto di una matrice originale, che risale alle prime forme di civiltà, e che poi si è diffuso in molte varianti per ogni angolo della terra.
Può essere, ma non abbiamo basi certe per dirlo. Di mio, propendo per un grandissimo sì.
Fatto sta che in tutte le mitologie risuona un bisogno di trascendenza… che parola odiosa! Trascendenza presuppone qualcosa da superare, da oltrepassare, ossia il corpo visto come vincolo a un'entità tipo... «anima».


Per carità! Cambiamo «trascendenza» con «creatività». Sì, perché il mito è un ardito volo sulle ali della fantasia, spiccato per dar voce a una inconscia memoria, anche se non esattamente ultraterrena. Un po’ lo stesso procedimento che utilizza uno scrittore quando si mette davanti alla sua macchina da scrivere per comporre una fiaba, un racconto, un romanzo. Raccontare, narrare, fantasticare… questo tratto della prima indole umana è forse il solo che non è mai stato perso. Oggi al mondo sono più gli scrittori (o presunti tali) che i lettori. Bene o male che sia, la voglia di raccontare non ha mai abbandonato la storia evolutiva del genere umano. Anzi, è nata con essa.


Azzardando un’interpretazione ancor più forte, potremmo dire che il mito non è una vera e propria narrazione, poiché è nato e si è formato insieme al linguaggio, in un fondersi dell’espressione verbale con l’innata creatività umana e le reminiscenze dell’inconscio. Mi troverebbe d’accordo Jung, secondo cui in ogni uomo, oltre a un inconscio personale, sarebbe presente anche un inconscio collettivo, ossia un modo istintivo di cogliere la verità del mondo e della natura, ricevuto in eredità dalle generazioni passate. Le immagini primordiali del mito sopravvivrebbero, dunque, seppur a livello inconsapevole, perpetuando tutto il patrimonio di conoscenze elaborate ai primordi della storia umana. (2)
Sulla base di questa interpretazione, tutta la cultura si fonderebbe sulla mitologia, retaggio dell’originaria concezione della vita, divenuta dapprima ingenua espressione artistica e poi racconto, sublimazione, modo di spiegare la tensione verso l’ultraterreno. Questa prima forma di espressione artistica, per dirla in parole povere, sarebbe colpevole di tutte le forme fondamentali della cultura spirituale, dalla religione alla filosofia. (3)
Nulla di strano, giacché ogni creazione umana ha sempre prodotto conseguenze sul mondo: le idee, anche quelle apparentemente più insignificanti, sono come i sassolini che partono dall’alto di una montagna e, via via, divengono valanghe.
Ad esempio, insieme al mito sorsero anche le prime rudimentali forme di culto, anche se ancora non si poteva parlare di vere e proprie religioni. Per mantenere il contatto tanto desiderato con le divinità, altro modo non c’era che farsele amiche, nella speranza che risparmiassero agli uomini la loro ira, che manifestavano a suon di alluvioni, siccità e altre spiacevoli disgrazie, come interrompere una partita di x-box sul più bello.
© Altan


Le analogie appartengono prevalentemente a una particolare categoria di narrazioni, chiamata «miti delle origini» (4), dove alla creazione del cosmo si intrecciano le gesta di eroi umani e di imprese divine, in un alternarsi di pulsioni positive e distruttive, guerre, sacrifici, sesso, amore, pietà, coraggio, lotta per la sopravvivenza, odio, violenza, brama di potere (5). Questi racconti, sottratti alle regole della logica e strettamente connessi, invece, alla dimensione onirica, intuitiva dell’essere umano, venivano narrati con solenne enfasi ed erano pertanto vissuti con intensa partecipazione e emotività.  (6)


Attenzione, però: nonostante la presenza degli dèi, essi non rappresentavano ancora una forma di religione, sebbene fossero interrelati a svariate pratiche rituali. Le risposte che gli uomini avevano a lungo cercato, furono generosamente fornite, se non dagli dèi, da coloro che si autoproclamarono loro vicari terreni: sacerdoti, profeti, sciamani, visionari e invasati. Le grandi religioni organizzate, come le conosciamo oggi, sono sorrette da gerarchie e burocrazie faraoniche, e smuovono quantità di denaro che non si sogna neppure Paperon de Paperoni. I riti antichi erano invece un po’ come le superstizioni, quelle stupidaggini per cui si tocca ferro (o altro) se un gatto nero ci attraversa la strada o se ci passa accanto un convento di suore. Gli antichi, forse un po’ più giustificati di noi, utilizzavano i riti per rievocare il ritorno alle origini, al momento della creazione del mondo, riti che sono confluiti nelle festività di fine e inizio anno, e nel Carnevale (7). E, così facendo, oltre a ristabilire un contatto con il mondo paradisiaco ormai perduto, esorcizzavano il presente e soprattutto il futuro.
Se non è superstizione questa!


Diciamo che, tra religione e mitologia sussiste una fondamentale differenza: la prima prevede il sommo rispetto della divinità, l’adorazione, il riconoscimento della sua grandezza e infallibilità. La seconda è un tentativo di dare una giustificazione alla realtà per pacificarsi con essa: «La mitologia esordisce con l’intento di decifrare i misteri: ‘essa vuole squarciare il velo’ sottrarre le forze sovrumane all’inconoscibile, e insomma spiegare il mondo». (8)

Dunque, se è vero che la mitologia ha fornito la base narrativa e, se vogliamo, ideologica, per lo sviluppo di tutte le grandi religioni che ancor oggi affliggono il mondo, è altrettanto vero che fosse lungi dalle sue intenzioni dare alla luce una prole tanto scomoda e pressante. Viceversa, nei miti delle origini troviamo una visione disincantata delle divinità, le quali – specularmente all’uomo – sono capaci tanto di amore che di odio e distruzione. Gli dèi infliggono ai mortali prove estenuanti, li schiavizzano, si servono di loro per fini non sempre limpidi. Questo tratto fa parte della visione altrettanto disincantata che gli antichi avevano della regalità. Capi, sovrani, satrapi detenevano un assoluto potere di vita e di morte sui loro sudditi. Bastava una parola, e zac!, cadevano giù le teste, e il sovrano non aveva nemmeno il dovere di giustificarsi. Il suo potere non contemplava né benevolenza né giustizia. Era un potere che richiedeva soltanto il timore, il riconoscimento del fulgore e della magnificenza regale.


Quindi, perché aspettarsi dagli dèi comprensione e misericordia?


Il motivo è lineare, scende dalle premesse stesse del mito: se, tramite i racconti dell’età dell’oro si tentava di giustificare la realtà, allora era anche necessario, tramite essi, fornire all’uomo una ragione per accettare la sorte, nel bene e più spesso nel male. In mancanza di spiegazioni razionali, la sola possibilità di risanare le ferite era quella di accettare il mondo per com’era. E, alla crudeltà della natura (o degli dèi), che troppo spesso si scatenava implacabile, venne dato il nome di fato, o destino: qualcosa di ineluttabile, a cui rassegnarsi, fino al giorno in cui le Parche avrebbero tagliato, senza preavviso, l’esile filo della vita.
I miti delle origini erano le giustificazioni che i nostri avi avevano escogitato ai grandi interrogativi della vita. Le religioni delle elaborazioni successive, che hanno strumentalizzato dei racconti bellissimi al fine di prevaricare ed esercitare il potere sui popoli di tutti i tempi, senza risparmiare atrocità e violenze di ogni sorta.


Come è potuto succedere tutto questo? Perché da delle leggende è nato uno strumento del male?
Forse perché non discendiamo dai lupi. I lupi, contrariamente a quel che vorrebbe l’immaginario comune, possiedono, ben inciso nel loro DNA, un sistema di retroazione all’attacco. Quando lottano con un altro lupo, nel momento cruciale, porgono la gola, in segno di resa. Messaggio che, senza bisogno di tanti giri di parole, l’avversario comprende al volo. E, con grande classe, si allontana: ha vinto senza bisogno di uccidere. Niente di meglio per favorire una convivenza pacifica. (9)
L’uomo, invece, discende dalle scimmie, esseri dispettosi, capricciosi, vanitosi, sempre pronti a prevaricare e a dettare legge sugli appartenenti alla propria specie. Mettiamoci questo, e mettiamoci pure la «genetica della cultura». Secondo l’etologo britannico Richard Dawkins, le culture si evolvono in modo non dissimile dagli organismi viventi. Se un’idea risulta vincente, funzionale in qualche modo, ha molte più probabilità di essere trasmessa alle nuove generazioni, di attecchire, di diventare patrimonio inalterabile (o un archetipo, per dirla alla Jung), così come è capitato alle giraffe dal collo più lungo di sopravvivere alla lotta evolutiva. Di conseguenza, si sono date il testimone nella storia le culture capaci di sviluppare tecnologie, economie e strategie atte al loro perpetuarsi. (10)


Ma anche, discendendo noi dalle scimmie, quelle in cui si potesse esercitare il potere su grandi masse: sì, perché senza gli schiavi come si potevano costruire le piramidi, erigere mausolei, bonificare acquitrini, cavare i metalli dal sottosuolo?
E come convincere queste grandi masse ad accondiscendere senza protestare, se non inventando una bugia, sì, una grande bugia?
Poco importa se il premio per tanta abnegazione sia la speranza in una vita eterna o l’aver reso grande un impero, uno stato, il castello di un re o il giardino di un riccastro dalla erre moscia in quel di Porto Cervo: il potere si ciba dell’ingenuità delle scimmie più piccole, del loro sacrificio, in modi molto subdoli, che ormai non si avvalgono solo delle religioni. Come sempre dell’x-box, ma anche dei mezzi di informazione. Mass media, li chiamano. Ed è giusto, perché riducono la massa a un sapere medio, senza speranze.



Immagino che non tutti concorderanno, ma difendo a spada tratta la libertà di pensare le più immonde sciocchezze. Non altrettanto di farle valere al tribunale della democratica argomentazione (che ha la sua radice etimologica in quell’«Argh!» primordiale), perché non tutte le idee si equivalgono o possono rivendicare uguale dignità e contenuto di verità.


A volte mi stupisco, nel sentire sostenere che la teoria dell’evoluzione non entra in contraddizione con quella creazionista. Stiamo scherzando? O una o l’altra, tertium non datur. La prima, però, ha delle prove dalla sua parte, la seconda, manco mezza. La seconda, addirittura, prevede una creazione da parte di una varietà di divinità diverse e in epoche diverse, dipende da quale sia il sacco religioso in cui si va a pescare. La scienza le risponde con la teoria del big bang, avvenuto diciotto miliardi di anni fa e confermato dalle misurazioni della radiazione cosmica di fondo. E segue spiegando come si sono formate le stelle, le galassie, il sistema solare e come, in un angolo fortunato, caso più unico che raro, si sia sviluppata la vita. Non per mano di un dio creatore, ma grazie a degli apparentemente insignificanti batteri, grazie al sole, grazie all’acqua e a un cocktail prodigioso: idrogeno, metano, ammoniaca e carbonio. Ecco questo è il solo e vero miracolo che tutte le religioni non prendono mai in considerazione. Gesù che moltiplica pani e pesci, a confronto di quel che l’universo ha prodotto senza bisogno di alcun dio, suona come una barzelletta che non fa ridere.
La legge di Hubble, i risultati delle ricerche di Einstein, così come le questioni più spinose, come il principio di indeterminazione di Heisenberg, fanno parte del modo in cui l’uomo cerca oggi, senza più bisogno di inventare metafisiche inutili. I nostri avi, dal trono del passato, ci sarebbero grati se, in questo progredire, avessimo tolto il velo alle falsità, alle oppressioni ingiustificate delle scimmie più prepotenti, quelle che si prendevano i guadagni di tutti, le femmine migliori e le si doveva apprezzare ancor più per questo…

Mi sa che, se potessero vederci, si sentirebbero delusi, traditi.
Per qualche imperscrutabile ragione, oggi l’uomo, sebbene abbia a sua disposizione la razionalità scientifica, nonché ogni mezzo per trovare le risposte della scienza alle domande che i nostri avi neppure si ponevano davvero, non ha smesso di credere in favolette prive di senso, che hanno il solo scopo di ottenebrargli la vista. Preme i pulsanti dell’x-box, e dà per scontato che quel che gli raccontano gli scemi del villaggio sia la verità. Del po’ di cultura che gli arriva dalla scuola, se ne frega, tanto non serve a niente, pensa. E poi è l’epoca delle nuove religioni, che fanno a gara con quelle storiche (come non bastassero i loro danni) per distorcere il senso di realtà. Ma anche l’epoca dove tutto è concesso, dall’avvistamento degli ufo alle sedute spiritiche alla cartomanzia. Ed è pure l’epoca dove i potenti e gli arroganti ancora ghignano su tutti noi, dall’alto dei loro conti in banca, che sono frutto dei nostri soldi, del nostro lavoro, non diversamente da come la piramide di Cheope era l’esito della fatica di migliaia di schiavi.
E ancora ci parlano di Dio, abbiamo perfino il Papa dentro il nostro Stato. E ancora sentiamo le religioni (quelle organizzate, diventate sistemi e fonti di odio, conflitto, impossibilità) rendere fragile la nostra esistenza e pure quella del futuro tutto dell’umanità.


Forse era concesso ai nostri avi, credere in qualcosa di tanto irrazionale. Ma noi come possiamo continuare a credere in un dio che non si è neppure preso il disturbo di esistere?

Claudia Maschio
Homer Evolution © Matt Groening



Note
  1. POKORNY, Jules. Indogermanisches Etymologisches Wörterbuch, 1959.
  2. JUNG, Carl Gustav, L’uomo e i suoi simboli, TEA, Milano, 1991.
  3. CASSIRER, Ernst, La filosofia delle forme simboliche, vol. II, Il pensiero mitico, La Nuova Italia, Firenze, 1961. 
  4. CAMPBELL, Joseph, Il racconto del mito, Mondadori, Milano, 1995.
  5. COTTERELL, Arthur, Miti e leggende, Rizzoli, Milano, 1998.
  6. VON FRANZ, Marie Louise, I miti di creazione, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 9.
  7. MASCHIO, Claudia, La magia del Natale nel mondo, QuiEdit, Verona, 2006; Da Arlecchino a Zanni, QuiEdit, Verona, 2007.
  8. DETIENNE, Marcel, L’invenzione della mitologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1983, p.29.
  9. LORENZ, Konrad, Il declino dell'uomo, Mondadori, Milano, 1984.
  10. DAWKINS, Richard, Il gene egoista, Mondadori, Milano, 1992.