venerdì 27 agosto 2010

Giacobbismi e mitologia cinese



Mi è capitato di sfogliare il libro Templari, dov'è il tesoro?, ultima fatica (si fa per dire) letteraria (si fa sempre per dire) di Roberto Giacobbo, il famigerato conduttore televisivo di Voyager.
A un certo punto, Giacobbo cerca di dimostrare che la rotta per l'America era ben nota nell'Alto Medioevo e che, secoli prima di Cristoforo Colombo, vi era già un discreto viavai di vichinghi,  templari e pescatori baschi dall'una all'altra sponda dell'Atlantico. L'ipotesi è niente male, e meriterebbe degli approfondimenti sensati, ma Giacobbo si limita a citare degli esempi, pescati un po' qui e un po' là, che lasciano il tempo che trovano.
Ma non è dell'America che voglio parlare, bensì della Cina. Che c'entra la Cina? Niente. Ma questo non vieta a Giacobbo di citarla, a casaccio, per rafforzare la sua tesi. Infatti, scorrendo con incredulo interesse i funambulismi logici affastellati da Giacobbo, sono inciampato sulla seguente affermazione (pagg. 173-174):

I testi cinesi raccontano le imprese di Shan Hai Ching T'Sang-Chu e Shan Hai Jing, i quali, mandati in missione dall'imperatore Huang Ti, avrebbero raggiunto le coste americane passando lo stretto di Bering già nel 2640 a.C.

Tale notizia è anche presente nel sito di Voyager, dove potrete leggerla in tutto il suo splendore, in un articolo dove si ipotizza la presenza di Dante in Islanda. L'assoluta improbabilità del contesto non ha impedito a parecchi altri siti e blog di riportare a loro volta l'informazione in oggetto, dimostrando una volta di più come tanta gente sia disposta a fidarsi a occhi chiusi di affermazioni campate in aria.
Già una frase che inizia con «I testi cinesi raccontano...» dovrebbe far rizzare le orecchie a chiunque abbia un minimo di senso critico. Di quali testi cinesi stiamo parlando? Tutti sono capaci di scrivere stupidaggini e ricondurle a imprecisate fonti cinesi, sanscrite o babilonesi, senza però dire quali. Si vuol dare l'idea che la letteratura antica, o di paesi lontani, sia cosa enigmatica e misteriosa, riservata agli studiosi e inavvicinabile ai comuni mortali, e che questi ultimi debbano accettare con timore reverenziale affermazioni tratte dai «testi cinesi», senza alcun diritto a un serio riscontro.
Ma ritorniamo all'affermazione presente nel libro di Giacobbo.
Tale affermazione, che il lettore poco addentro ai meandri della mitologia orientale non può che accettare sulla fiducia, nasconde una stratosferica, mastodontica, abissale ignoranza della materia. Chi l'ha scritta non aveva la minima idea di cosa stesse scrivendo. È una frase che meriterebbe gli onori del Guinness dei Primati solo per l'incredibile densità di strafalcioni che riesce a contenere nello spazio di quattro righe.

Ma procediamo con ordine.
Abbiamo alla base un'ipotesi avanzata da Henriette Mertz nel 1972 (Pale Ink: Two Ancient Records of Chinese Exploration in America). L'autrice cercava di dimostrare, a partire da alcuni accenni contenuti in un testo cinese di duemila anni fa, il Libro dei monti e dei mari, che i Cinesi fossero arrivati in America.
Per la cronaca, una bella traduzione italiana del Libro dei monti e dei mari è stata pubblicata da Marsilio, a cura di Riccardo Fracasso (Venezia 1996). Chiunque può quindi andare a consultare il testo e farsi un'idea del suo effettivo contenuto. Il Libro dei monti e dei mari  è essenzialmente un elenco di monti, fiumi, mari e isole, sia della Cina che delle terre confinanti. L'elemento fantastico predomina incontrastato: quasi ogni toponimo è abitato da draghi, mostri, animali e popoli straordinari. Vi sono descritti uomini dal becco d'uccello, dal corpo di serpente, con le ali o l'andatura quadrupede, o con un foro nel busto (in modo che, facendovi passare un palo, due servi vi possano trasportare senza l'ausilio di una portantina).
Il lettore può giudicare da sé quanto un libro simile sia affidabile al fine di dimostrare che i Cinesi conoscessero l'America.

Ora, non credo che Giacobbo sia andato a fare ricerche troppo approfondite. Non ha certamente consultato il Libro dei monti e dei mari, né probabilmente ha mai sentito parlare degli studi della Mertz. Le sue fonti sono riportate in bibliografia, e non c'è tanto da stare allegri visto il livello medio dei libri citati. Proprio non me lo vedo Giacobbo che va a fare ricerche in biblioteca. Immagino che egli abbia tratto le sue informazioni da internet.
Comunque sia, ho voluto fare una piccola ricerca. Ho dato un'occhiata su Google e ho subito trovato, in questa pagina, incentrata sui vichinghi, la seguente affermazione:

The ancient Chinese geographical text, Shan Hai Ching T'sang-chu, and the classic chronicle Shan Hai Jing, suggest that the West coast of North America was "discovered" by Chinese Imperial astronomers.

Capito? Avete letto bene? Shan Hai Ching e Shan Hai Jing sono qui i titoli di due opere letterarie, non i nomi dei due messaggeri che, secondo Giacobbo, l'imperatore avrebbe inviato in America. Qualcuno, nel tradurre dall'inglese, deve aver compiuto un errore di traduzione davvero barbino. Non voglio credere sia stato Giacobbo. Magari, il nostro valente scopritore di misteri ha ricopiato una pessima traduzione italiana e, senza avvedersene, ha infilato dentro una virgola, trasformando due libri in due uomini!
Ma anche se non fosse stato Giacobbo l'autore di una così fuorviante traduzione, è pur vero che, riportandola pari pari in un libro sponsorizzato dalla Rai e destinato a un'ampia quanto immeritata diffusione, ne è ugualmente responsabile.
Inoltre, nel citare le due opere cinesi, la fonte di partenza conteneva un altro errore, pacchianissimo, che il baldo Giacobbo ha allegramente contribuito a tramandare ai posteri. Volete sapere quale? Riportiamo ancora una volta i titoli delle due opere, come scritti nel libro di Giacobbo:

Shan Hai Ching T'Sang-Chu
Shan Hai Jing

Ora, lo Shan Hai Ching e lo Shan Hai Jing non sono due opere, ma una sola, e cioè il Libro dei monti e dei mari (山海经), traslitterato prima secondo il vecchio criterio Wade, poi nel sistema ufficiale Pinyin. È curioso che nessuno, tantomeno Giacobbo, sia sia reso conto di aver riportato due volte uno stesso titolo, solo perché scritto in due modi lievemente diversi.
(Per inciso, «T'Sang-Chu» non so cosa significhi. Forse nulla, visto che sembra più vulcaniano che cinese. Ma forse l'autore voleva scrivere ts'ang-chu, con lo spirito aspro dopo il ts...)
Che Giacobbo citi come «prova» che i Templari fossero andati in America un bestiario cinese che non ha mai letto, citato da fonti pescate su internet, e il cui titolo, traslitterato secondo due criteri diversi, ha scambiato per i nomi dei due inviati dell'imperatore, è un ottimo esempio della validità e della serietà del suo studio...
Ma veniamo all'«imperatore» citato da Giacobbo. Huang Ti, o in pinyin, Huang Di, il «Dominatore Giallo». È un mitico sovrano predinastico che, stando allo Shiji, le famose «Memorie Storiche» di Sima Qian, avrebbe regnato dal 2697 al 2512 a.C., cioè prima dell'uccisione di nove dei dieci Soli da parte del divino arciere Yi, e prima della grande inondazione causata dal mostruoso Gong Gong. Nel corso del suo regno, Huang Di combatté una guerra contro Chi You, un temibile avversario con quattro occhi e la testa di toro, e lo mise in fuga suonando un magico tamburo fabbricato con la pelle di una creatura unipede che viveva nel mare orientale. Alla fine della sua vita, fu reso immortale e salì al cielo sul dorso di un drago.
Queste note tanto per evidenziare che, come personaggio storico, Huang Di è allo stesso livello di Gilgameš, Eracle o Romolo. Citarlo quale «prova» di qualsiasi ipotesi storica è semplicemente ridicolo.
Già poi definire Huang Di «imperatore» è un altro errore imperdonabile. Com'è noto, le leggende cinesi delle origini prendono l'avvio da una serie di otto sovrani preistorici, i tre huang («augusti») e i cinque di («dominatori»), tra cui appunto il nostro Huang Di. Su di essi si accentrano molte leggende culturali: costoro avrebbero creato l'umanità e fondato tutti i rudimenti del vivere civile. Ma in quanto a consistenza storica, non ne hanno più di quella dei patriarchi antidiluviani della Bibbia.
A questi otto sovrani predinastici, secondo le leggende cinesi, seguì la prima dinastia Xia, la quale non ha alcun riscontro storico. La dinastia Shang, che seguì ad essa, è quella a cui tradizionalmente si fanno risalire le incisioni sulle ossa oracolari, trovate dagli archeologi nella vallata del Fiume Giallo, che sono le prime timide testimonianze della civiltà cinese. Solo con la terza dinastia Zhou, entriamo vagamente in qualcosa definibile come storia...
Tutto questo per farvi capire che razza di valore storico si possa dare a un personaggio come Huang Di, il «Dominatore Giallo», ancora più antico delle più remote testimonianze archeologiche della civiltà cinese.
Ora, i sovrani delle prime dinastie (Xia, Shang, Zhou...) venivano definiti wang («re»). Il primo a fregiarsi con il titolo di «imperatore», come tutti sanno, fu Qin Shi Huang Di, l'unificatore della Cina, il folle creatore dell'esercito di terracotta, vissuto nel III sec. a.C. Egli mise insieme i titoli preistorici di huang e di di e ottenne un titolo nuovo di zecca, huang di, «augusto dominatore», cioè quello che noi traduciamo con «imperatore».
Forse Giacobbo aveva confuso il mitico e saggio Huang Di con l'arrogante e storicamente concreto Qin Shi Huang Di? Potrebbe anche darsi, per quanto dovrebbe essere evidente persino a lui che duemilatrecento anni di scarto temporale tra l'uno e l'altro non sono propriamente una bazzecola. A scanso di equivoci, aggiungiamo che il huang nel nome del sovrano predinastico Huang Di non vuol dire «augusto» ma «giallo»; in cinese viene infatti scritto con un diverso ideogramma.
Secondo una delle tante leggende che lo riguardano, Huang Di si era occupato di ancorare le isole degli immortali che, secondo il mito cinese, andavano alla deriva nel mare orientale. Queste si chiamavano Dai Yu, Yuan Jiao, Fang Hu, Ying Zhou e Peng Lai. In queste isole paradisiache, schiere di immortali [xian] vivevano in palazzi d'oro con colonne di giada, e avevano a disposizione elisir che impedivano la morte. Laggiù tutti gli uccelli e i quadrupedi erano bianchi, e gli alberi generavano frutti simili a perle deliziose, che conferivano l'immortalità a chiunque le assaggiasse. Per ancorarle, Shang Di ordinò a un genio di nome Yu Jiang di cercare quindici tartarughe giganti in modo che a turno sostenessero sulle loro teste le cinque isole. Così venne fatto, e tutti furono soddisfatti.
Altro non è che il mitema delle isole dei beati, collocate al di fuori del mondo e della storia, dove il tempo è rimasto sospeso all'epoca della perfezione primordiale e dove non esistono malattia, vecchiaia e morte. Le isole cinesi sono affini alle isole delle Esperidi del mito greco o ai síde delle leggende irlandesi e, anzi, appartengono alla medesima sfera mitologica.
Inutile aggiungere che posti come questi non hanno alcuna attendibilità geografica... per quanto pare che Qin Shih Huang Di avesse effettivamente inviato delle navi a cercare le cinque isole degli immortali, nel tentativo di sconfiggere la morte.
Possiamo forse scusare il megalomane imperatore, che visse più di duemila anni fa, in un mondo in cui i taoisti non facevano che cercare tecniche in grado di rendere gli uomini immortali. Ma il voler identificare le terre favolose di cui parla il Libro dei monti e dei mari con il continente americano, come ha fatto la Mertz, è solo la proiezione di una mente geograficamente moderna su una figurazione assolutamente mitologica.

In quanto a Roberto Giacobbo, semplicemente non credo avesse la più pallida idea di cosa stesse trattando, quando scriveva le righe di cui sopra.
Ma che importa? È evidente che Templari sia un testo del tutto avulso da qualsiasi intenzione di verità. Mette insieme ciò che fa comodo alla tesi di Giacobbo, senza alcun tentativo di analisi critica delle fonti, senza alcun criterio nell'esposizione delle prove e senza alcuna logica nella sequenza dei ragionamenti. È una stronzata in senso frankfurtiano. Certo, sarà il tempo a condannare simili libri alla meritata damnatio memoriae, ma intanto c'è gente priva di scrupoli che li scrive e gente disarmata che li compra e magari li prende pure per oro colato.

Auspicare un minimo di onestà intellettuale, è forse troppo?
PS. Un'ultima nota. Il primo ministro di Huang Di si chiamava Cang Jie. A lui veniva fatta risalire l'invenzione della scrittura pittografica. Il suo nome, nella traslitterazione Wade, dà Ts'ang-Chieh. Potrebbe essere lui, in effetti, lo «T'Sang-Chu» [sic] che il testo di Giacobbo fonde al titolo dello Shan Hai Ching. Ma questa è una mia ipotesi. Non ho idea di cosa intendessero al riguardo Giacobbo o le sue fonti. Se qualcuno ha qualche idea, a puro titolo di morbosità, si faccia pure avanti.

martedì 3 agosto 2010

Piccolo excursus miðgarðiano

Con il Miðgarðr, o «recinto mediano», regione cosmica abitata dal genere umano, affondiamo nella comune cosmologia germanica. Il termine mantiene però i suoi addentellati mitologici solo nella letteratura in lingua norrena; nelle fonti cristiane – gotiche, tedesche, sassoni e anglosassoni – è utilizzato semplicemente come sinonimo poetico della terra abitata dagli uomini.


Nella quarta strofa della Völuspá si accenna rapidamente della creazione del Miðgarðr, nel corso dell'imponente opera cosmogonica messa in atto dai tre figli di Borr. Il brano è il seguente:


Áðr Bors synir
bjöðum of ypðu,
þeir es Miðgarð
mæran skópu...


Finché i figli di Borr
 innalzarono le terre,
 loro che Miðgarðr
 vasto fondarono...


Il brano è piuttosto ambiguo ed è difficile dire se anche il Miðgarðr sia da considerare una delle «terre» [bjöðum] innalzate dai figli di Borr.


La parola norrena bjöðr (o bjóðr) significa innanzitutto «tavola, mensa», ma anche, al plurale, «suolo, terraferma, distesa». È una parola abbastanza affine, semanticamente, allo spagnolo mesa o al francese plateau. Marcello Meli (Völuspá, 2008) suggerisce che tali «terre» vennero tratte fuori dalle acque, con possibile riferimento al dettato biblico, dove le acque si ritirano al comando di Dio per lasciar emergere la terraferma. L'interpretazione appare però improbabile, perché il motivo dell'emersione della terra dalle acque sembra estraneo al mondo germanico. La formazione del Miðgarðr sembra avvenire dopo l'emersione delle «terre», quasi una creazione operata separatamente dai figli di Borr.


Ma in che modo si può intendere la creazione del Miðgarðr? Il verbo skapa significa in effetti «plasmare, dare forma», ma anche «assegnare un destino», e ancora, nella forma derivativa skepja, «fissare» (Ulfila rende con il gotico skapjan il greco ktízō «fondare, istituire»). Quest'ultimo significato è piuttosto interessante, e merita di essere esplorato.


I dettagli dell'opera di creazione compiuta dai figli di Borr sono definiti in Grímnismál  [40-41], dove si dice che l'universo viene plasmato a partire dal corpo sacrificato del gigante primordiale Ymir: la terra è tratta dalla sua carne, il mare dal suo sangue, le montagne dalle ossa, gli alberi dai capelli, il cielo dal cranio, e così via. È appunto nel contesto di una tale cruenta opera di creazione, che la natura del Miðgarðr viene definita in senso etimologico e cosmologico insieme:


En ór hans brám
gerðo blið regin
miðgarð manna sonom...


Dalle sue sopracciglia
 fecero gli dèi benedetti
 Miðgarðr per i figli degli uomini...


La spiegazione viene fornita da Snorri: «All'interno [della terra], [i figli di Borr] innalzarono una fortificazione [borg], a causa dell'ostilità dei giganti e, per farla, utilizzarono le sopracciglia del gigante Ymir».


Il Miðgarðr  non viene dunque creato o plasmato, ma semplicemente  disegnato o, se vogliamo, istituito. Il verbo è qui un generico göra/gera, «fare, costruire». D'altronde ben adoperato, visto che i figli di Borr non hanno fatto altro che innalzare fisicamente una recinzione. La «creazione» del Miðgarðr si configura dunque come la delimitazione di uno spazio. È un'opera non di creazione, ma di fondazione.


La parola Miðgarðr, come detto, significa letteralmente «recinto mediano», nel senso di «spazio all'interno di un recinto». Non vi è dunque soltanto una nozione di centralità, ovvia conseguenza dell'esperienza umana che tende a porsi al centro del proprio sistema di coordinate psicologiche, ma anche una nozione di luogo raccolto a difesa. Infatti, mentre quasi tutti i nomi dei nove mondi sono caratterizzati dalla parola -heimr «casa, patria, mondo», Miðgarðr è un composto in -garðr. Questo termine viene tradotto con «recinto» (cfr. tedesco Garten «giardino», inglese yard «cortile» e garden «giardino», danese e svedese gård «cortile, fattoria»), anche se vi è contenuta la connotazione di una fortificazione atta a proteggere un villaggio o un centro urbano, e quindi è altrettanto traducibile con «fortezza» (cfr. paleoslavo gorodŭ «fortezza», da cui russo grad «città» e cèco hrad «castello»; lituano gardas, žardas «recinto, fortificazione»).


La «creazione» del Miðgarðr non lo è quindi in senso cosmogonico, ma più in senso legale o giuridico. Non è diversa dall'operazione di tracciare un solco o un confine, o di erigere una palizzata intorno a una città. I figli di Borr, dunque, non creano il Miðgarðr, ma lo istituiscono. Ciò spiega la nostra proposta di traduzione del verbo skápa inVöluspa [4]:


...loro che Miðgarðr
 vasto fondarono...


Tale helmingr può anche essere letto superando la necessità di tradurre il termine Miðgarðr come nome proprio: «loro che un vasto spazio mediano recintarono».


E non appena l'umanità venne creata, aggiunge Snorri, «le fu data dimora entro il Miðgarðr» [þeim er bygðin var gefin undir Miðgarði]. Il Miðgarðr è lo spazio compreso dentro questo imponente bastione cosmico.  È il nostro mondo.


Schedario: [Miðgarðr]