giovedì 31 marzo 2011

Sardegna vichinga

È con entusiasmo che segnaliamo l’uscita dell’ultima fatica del professor Oliviero Canetti, il libro Sardegna Vichinga, recentemente edito nella prestigiosa “Biblioteca Storica” della Laterza.

Il volume è una sintesi della monumentale teoria della «Sardegna Vichinga» costruita dallo stesso Canetti nel corso dei molti anni trascorsi sull’isola, come professore associato di filologia germanica all’Università degli Studi di Cagliari. Pur essendo un testo essenzialmente divulgativo, compilato a partire da una corposa serie di articoli pubblicati nei Quaderni dell’Università tra gli anni Ottanta e Novanta, Sardegna Vichinga è un libro ben argomentato, convincente nei punti fondamentali, forse un po’ azzardato in alcune conclusioni. Come ammette candidamente lo stesso Canetti, la sua ipotesi ha ancora parecchi punti deboli, e richiederà ancora molti approfondimenti e verifiche.
L’idea del libro – che la civiltà vichinga si sia originata in Sardegna – potrebbe sembrare  una delle tante fumose provocazioni pseudo-archeologiche destinate a produrre corposi best-sellers (come il famoso Omero nel Baltico di Felice Vinci), ma il professor Canetti procede con il massimo rigore e puntiglio critico, senza lasciare nulla per scontato. Il libro è corredato da un’illuminante introduzione dell’archeologo Giovanni Lilliu, vecchio amico del Canetti.
È complicato riassumere in poche parole un libro di oltre quattrocento pagine. Quello che Canetti sostiene, in sintesi, è che, nei circa ottant’anni di dominio della Sardegna da parte dei Vandali (ca. 457-534), questi abbiano assorbito una parte del substrato culturale sardo, substrato che sarà determinante nel processo di etnogenesi di altri popoli germanici.
I libri di storia affermano che i Vandali fossero di religione ariana e avessero continui contrasti con le diocesi romane stabilite nell’isola. In realtà, sostiene Canetti, i Vandali di Sardegna erano essenzialmente pagani e si erano allontanati dall’impero nordafricano per poter adorare indisturbati i loro dèi (un po’ come avrebbero fatto i norvegesi in Islanda nel X secolo). La pretesa d’autonomia del governatore Goda, proclamatosi sovrano dell’isola nel 533, e la successiva repressione da parte del re Gelimero, andrebbero viste, secondo Canetti, come uno scontro tra arianesimo e paganesimo. Il nome di Goda andrebbe inteso in realtà come góði, sacerdote-sacrificatore della religione germanica.
Con l’inizio del dominio bizantino, nel 534, i Vandali pagani furono costretti a lasciare la Sardegna e, agli ordini dei loro semimitici capi, Saxnôt e Anglôt (a cui si accenna negli scolii al Bellum Vandalicum di Procopio di Cesarea), sbarcarono sul continente, decisi a ritornare alla loro antica terra d’origine. Canetti ricostruisce il percorso di questi Saxones e Anglones, grazie ad alcuni passi del Chronicon Cluniacense, che attesta la loro presenza a Fulda nel 539. In un capitolo della Sárdingar saga, i due capi compaiono con i nomi Sǫksar e Ǫnglar, e il secondo è destinato a cadere nel corso di una battaglia combattuta – con evidente anacronismo – contro i Franchi. Comunque siano andate le cose, i pagani irredenti riuscirono infine a riunirsi ai loro fratelli stanziati sulla costa dano-tedesca, dando origine alle tribù degli Angli e dei Sassoni.
La seconda parte del libro di Canetti insegue molti dei possibili elementi di scambio tra Vandali e Sardi e, a dispetto di quella che Lilliu definiva costante resistenziale sarda, ovvero la caparbia ostilità delle genti autoctone dell’isola a mescolarsi con gli invasori, individua un gran numero di dati linguistici, filologici e antropologici che testimoniano un continuo interscambio tra cultura germanica e cultura sarda.
Ad esempio, giusto per rifarsi alle due tribù citate dagli scolii procopiani, l’etnonimo Saxones, che Canetti interpreta da un sardo satzagoni > sassagoni, «mangioni», così chiamati per via dei loro vivaci festini religiosi (norreno blót, «festino»«sacrificio», cfr. sardo brotzu, «coltello [sacrificale]»), sarebbe non solo alla base del nome dei Sassoni ma anche, ovviamente, dell’odierna città di Sassari, mentre gli Anglones avrebbero lasciato il proprio nome alla regione dell’Anglona.
Secondo Canetti, il nome dell'Asinara sarebbe interpretabile come «altare delle dee» (< *ásinja ara), mentre la regione della Nurra avrebbe preso nome dal dio Njǫrðr (forse una germanizzazione dell’antico dio sardo Norax), il quale sarebbe anche alla base del nome della città di Nuoro.
I frequenti toponimi che iniziano per ol- troverebbero invece la loro radice nella parola germanica *alu-, «birra» (da cui norreno ǫl), luoghi dove il culto agli dèi si risolveva in solenni libagioni di cervogia. Oristano deriverebbe da un norreno ǫlir-staðr, «città degli ubriaconi», in seguito divenuto *ǫristannr, con regolare passaggio [ð] > [nn]. Olbia sarebbe addirittura interpretabile con ǫl-bjǫrr, con giustapposizione di due distinti termini norreni per «birra», ǫl e bjǫrr (cfr. inglese ale e beer). Pure Canetti ritiene che il mirto sia nato in seguito a un goffo tentativo dei pastori sardi di imitare la distillazione del mjǫðr, il famoso «idromele» decantato nelle saghe (a meno che non sia accaduto il contrario: in proposito Canetti confessa un margine di perplessità).
Il nome Barbagia, inutile dirlo, fu dato dai bizantini alla regione in cui si erano asserragliati gli ultimi barbároi vandali prima della loro definitiva partenza dalla Sardegna.
L’isola di Caprera sarebbe stato invece un importante luogo di culto di Þórr, dove caproni e mufloni venivano offerti in sacrificio al dio del tuono. In nota, Canetti cita un vecchio articolo del risorgimentalista Primo De Aprilis, nel quale si diceva che Giuseppe Garibaldi, assiduo spettatore delle rappresentazioni wagneriane, fosse un grande appassionato di epica germanica e portasse sempre con sé un’edizione tascabile del Germanisk Mithologi di Rydberg. La scelta di trascorrere i suoi ultimi giorni a Caprera – come anche quella di esibire una folta barba – sembra documentasse la sua segreta devozione al dio del tuono.
Nelle pagine di Canetti, l’assolata e mediterranea Sardegna assume un forte valore mitogenetico e paradossalmente diviene lo scenario di quelle leggende che secoli dopo il mondo assocerà al gelido nord. L’autore è convinto che molti dati mitologici, divenuti patrimonio comune dei popoli germanici e infine confluiti nelle due Edda, sarebbero nati proprio in Sardegna, allorché i Vandali rilessero le leggende locali alla luce delle loro concezioni religiose.

È probabile, ad esempio, che Óðinn abbia ereditato la lancia dal Pater Sardus, che nelle figurazioni impugna un giavellotto. Allo stesso modo, Canetti interpreta il toponimo Aggius da un norreno/latino *Aug-dius, «dio con l’occhio», e localizza senza esitazioni il vicino nuraghe in cui Óðinn avrebbe lasciato il suo occhio.
Il dio Meili, vagamente ricordato nelle Edda come fratello di Þórr, sembra invece avere pura origine sarda, almeno a giudicare dalla sua diffusione nella toponomastica (avrebbe dato nome a località come Meleu e Meilogu) e persino nell’onomastica (il cognome Melis), sicuro segno di un culto assai vasto e radicato. È significativo che i Vandali, abbandonando l’isola, si lasciarono alle spalle questo dio Meili, che dovevano sentire estraneo alla loro sensibilità.
Le fonti sacre di cui è ricca la Sardegna avrebbero parimenti lasciato una traccia nella cosmologia norrena. Le fonti delle grotte di sa Preione e s'Orku di Siniscola avrebbero ispirato rispettivamente la sorgente della sapienza di Mímir (dal sardo preio(n)- viene infatti la radice norrena frǿð-, «sapienza»: il regolare passaggio [p] > [f] è un ennesimo tributo alla legge di Grimme quella del destino a cui presiedono le Nornir (dalla dea sarda Orka sarebbe appunto derivato il nome della norna Urðr).
Analogamente, il fiume Tirso viene interpretato in riferimento a un norreno Týrs-ø, «Isola di Týr», epiteto che, secondo Canetti, poteva essere uno dei nomi sardo-vandali della Sardegna.
Una fortunata intuizione permette a Canetti di spiegare anche il nome del Golfo degli Aranci. Com’è noto, la denominazione fu data per errore dai geografi piemontesi a un originario golfo di sas rancis, dei «granchi». Secondo Canetti, che al riguardo esibisce una interessante documentazione del periodo giudicale, rancis sarebbe una deformazione popolare di un originario ragna, genitivo di reginn, «dèi», e il nome originario del golfo sarebbe dunque ricostruibile in *Ragnavík, «baia degli dèi». Canetti sostiene che in questo splendido golfo sarebbe stata ambientata la battaglia finale tra dèi e giganti, il Ragnarǫk, poi confluita nella Vǫluspá.
Ma oltre alle numerosissime etimologie, l’imponente impianto assertivo di Canetti tocca un gran numero di elementi della cultura sarda, tra cui musica e danze popolari, vestiti tradizionali, e addirittura la cucina, cosa che non ci stupisce, in quanto il professore è notoriamente una buona forchetta. A suo dire, per esempio, il famoso porceddu cucinato tra le pietre arroventate sarebbe da ricollegare all’uso scandinavo del forno campestre o seyðr.

Canetti, pur con un margine di dubbio, interpreta i mamuthones e gli issahadores del carnevale di Mamoiada alla luce delle teorie trifunzionali di Georges Dumézil. Per quanto l’originario mito sardo-vandalo sia andato perduto, esso sarebbe deducibile dai dati del folklore locale, dove gli issahadores rappresenterebbero i membri della prima e seconda funzione (le fruste simboleggiano appunto la sfera del dominio e della forza) e i mamuthones della terza (i campanacci sono un chiaro richiamo alla pastorizia). Per quanto non ci siano dubbi che la prima parte del termine issahadores derivi da un esa-/æsa-, genitivo plurale di áss- (la classe degli dèi di prima e seconda funzione), con regolare metafonia nella vocale radicale (il regolare passaggio [e] > [i] in norreno è probabilmente ispirato alla tenace conservazione della [i] latina in sardo), più arduo è rintracciare l’etimologia della parola mamuthones. In genere la si fa risalire a uno spirito silvestre del folklore sardo, sa Maimoni o sa Mamuthoni. Canetti pensa in realtà a un norreno mann-mútaðr, «uomo che muta», con riferimento ai cicli della natura. A ogni buon conto, le desinenze -ores ed -ones, di origine neolatina, indicano chiaramente l’elemento attivo e quello passivo nei due gruppi di maschere.
L'ipotesi non è nuova, ma Canetti prende recisamente le distanze dalla precedente teoria della studiosa islandese Apríl Fisksdottir, secondo la quale gli issahadores e i mamuthones rispecchierebbero la dicotomia tra elfi luminosi ed elfi scuri.

Lautore suggerisce che la accabadora, la donna che, fino a tempi piuttosto recenti, si recava nelle case per agevolare il trapasso dei moribondi, fosse un residuo dell’uso germanico di farsi «segnare» con la lancia in punto di morte per poter accedere alla Valhǫll. Canetti, giustamente, rimanda il termine al verbo norreno kalla, «chiamare», che al participio femminile dà kallaði. Con prefisso intensivo, su un substrato latino, esso avrebbe dato accallatora, da cui accabadora, «colei che viene chiamata» per por fine alla vita del guerriero. Al riguardo, l’uso reso noto dal recente romanzo di Michele Murgia presenta incredibili legami con un uso documentato per le più antiche popolazioni germaniche (si veda il sacrificio umano in voga presso i Cimbri, dove vecchie streghe tagliavano la gola ai prigionieri di guerra). Secondo Canetti, la figura della accabadora sarebbe anche alla base del racconto snorriano della lotta di Þórr con la vecchia Elli, venuta a dargli il colpo di grazia.
All’importanza nel folklore sardo di streghe e veggenti, le quali avrebbero a loro volta ispirato le vǫlvur germaniche, fa riferimento il nome greco dell’isola, Ἰχνοῦσσα, che venne ben presto re-interpretato in norreno come Ek nú sjá, «che ora io veda».

In appendice, seppure avanzando tra ragionevoli dubbi, Canetti propone una teoria che egli stesso giudica piuttosto azzardata. Il professore ipotizza un ulteriore substrato sotto quello vandalico, questa volta di origine celtica. Gruppi gallici appartenenti alla tribù dei Sardones, come testimoniato da Solino nel Collectanea rerum memorabilium, si sarebbero insediati in Sardegna in epoca romana. Essi avrebbero lasciato tracce nella toponomastica del territorio, dove la Gallura ha presso ovviamente nome dagli stessi Galli e il Logudoro sarebbe stato il territorio sacro al loro dio *Lugos.
Ebbene, sembra siano stati proprio questi gruppi di celti di Sardegna a opporsi all’invasione vandala, intorno al 460. Il nome del loro dux bellorum, il gallo-sardo Arturixe, è nominato in due documenti epigrafici, tra cui il cippo di Gonnostramatza, oggi al Museo archeologico di Cagliari. Secondo Canetti, la disperata resistenza di Arturixe (cfr. sardo arturius, «spirito invitto»), il cui corpo sarebbe stato sepolto nell’isola Cavallo (la «Avalon sarda»), avrebbe ispirato nei Vandali una serie di canti popolari (gli scaldi germanici hanno ben più di un rapporto con i cantadores a ottavas sardi), alcuni dei quali registrati dai folkloristi all’inizio del secolo scorso (si veda la raccolta manoscritta di Grazia Deledda, conservata nella biblioteca di Nuoro). Questo materiale, si doveva essere ormai trasformato in un vero e proprio ciclo leggendario, al tempo in cui Saxones e Anglones salparono dalle coste dano-tedesche verso la Britannia, quasi alla ricerca di una «Nuova Sardegna» in cui ricreare il perduto regno sardo-vandalo. In seguito, Nennio e Goffredo di Monmouth si sarebbero ricordati di Arturixe, allorché crearono i presupposti dell
immortale figura di re Artù.
Lo stesso Canetti mostra, al riguardo, un pizzico di scetticismo, ma un numero rilevante di «coincidenze», troppo vaghe per essere sostenute con il dovuto rigore scientifico (dalla domu de janas che avrebbe ospitato Merlino, fino al San Grail custodito sull’isola della Maddalena) suggerirebbero che il primo archetipo del ciclo arturiano si sarebbe sviluppato appunto in Sardegna.

Ma lasciamo ai lettori il piacere di perdersi nelle pagine di Sardegna Vichinga. Perché il professor Canetti non ci restituisce soltanto alcuni puzzle di uno dei misteri più affascinanti della cultura europea, ma viene a gettare un ponte sullo iato, fino ad ora incolmabile, tra i popoli del mare e i vichinghi. I due più grandi navigatori della storia d’Europa, divisi da tremila anni di storia, trovano ora la loro continuità nella magica terra di Sardegna.

Aprile è il più crudele dei mesi...

sabato 5 marzo 2011

A scuola di mitologia - 3


Utilizzo dei dati

I dati tratti dalle fonti primarie sono le necessarie premesse da cui lo studioso di mitologia parte per le sue analisi. Ma che valore dare a questi dati? Fino a qual punto ci possiamo affidare ad essi?


È una domanda scomoda, anche perché, molto spesso, le fonti primarie sono tutto ciò che abbiamo.


Qualsiasi lavoro su un personaggio, un attributo, un mito, richiede innanzitutto di poter contare su tutte le fonti che lo riguardano. Questo ahimé non è sempre possibile: capita che molti testi non siano disponibili. Capita anche di lasciarsi sfuggire alcune fonti importanti semplicemente perché non ne siamo a conoscenza.


Diciamo innanzitutto che bisognerebbe consultare sempre le fonti originali, cosa che disgraziatamente richiede anche una certa dimestichezza con la lingua in cui sono scritte. L'ideale sarebbe poter confrontare direttamente i manoscritti, ma per i nostri usi possono andare bene anche delle buone edizioni critiche, col testo normalizzato e le varianti testuali in nota. È utile affiancare al testo originale diverse traduzioni, che andranno studiate con attenzione, cercando di comprendere le ragioni delle scelte effettuate dai vari interpreti. È importante poter montare sulle spalle degli studiosi che ci hanno preceduto, ma il testo in lingua originale rimane imprescindibile.


Ora che abbiamo i testi, possiamo finalmente mettere insieme tutti i dati in essi presenti, al fine di costruire un dossier esaustivo riguardo a un mito o un personaggio. A questo punto, ci troviamo però di fronte a un nuovo dilemma: quanto sono affidabili i dati che abbiamo? Basterebbe la semplice constatazione che non tutte le fonti sono ugualmente attendibili, per costringerci a valutare il peso dei vari dati  a nostra disposizione. Ma molti altri fattori incidono sulla loro affidabilità.


Prima di iniziare un lavoro, dobbiamo dunque capire quanto possiamo fidarci, e fino a che punto, delle nostre premesse.



Per ogni dato, dovremmo chiederci, alla luce della ricerca che abbiamo intrapreso, quanto sia significativo, specifico e definitivo.


1. Un dato è significativo quando definisce in maniera importante un mito o un personaggio. Ad esempio, la clava è un attributo significativo nella figura di Hēraklês: senza di essa, l'eroe ellenico perde un'importante caratterizzazione. Viceversa, un lavoro che definisca Hēraklês come arciere, a partire dagli episodi in cui scaglia frecce (nell’abbattimento degli uccelli stinfalici, contro il dio-sole H́ēlios, oppure contro il centauro Néssos), non tiene conto del fatto che l’eroe ellenico si risolve a scagliar frecce soltanto in occasioni secondarie e accessorie. Certamente, Hēraklês è anche un arciere, ma il tratto  non è significativo, in quanto il personaggio non è mai definito dalla sua abilità nell’uso dell’arco (al contrario, ad esempio, di Apóllōn e Ártemis).


2. Un dato è specifico quando appartiene soltanto a un personaggio, e quindi caratterizzante in modo univoco.
Molti eroi greci combattono di spada, ma la clava è specifica di Hēraklês e il falcetto di Perseús. In genere i dati significativi sono anche specifici, ma non sempre. Ad esempio, che Hēraklês sia figlio di Zeús, è una caratteristica significativa del personaggio, ma non specifica. Molti altri eroi del mito greco vantano infatti la medesima discendenza, e quella di Hēraklês non sembra più necessaria di quanto non sia, ad esempio, quella di Perseús.


3. Un dato è definitivo quando non presenta ambiguità.
Che Perseús sia figlio di Zeús è un tratto definitivo: non conosciamo alcuna ragione perché debba essere altrimenti. Stessa cosa non possiamo dire, ad esempio, della paternità di Hēraklês. Anche se le fonti greche sono più o meno concordi ad assegnargli Zeús come padre divino, altre tradizioni puntano su diverse direzioni. Presso gli Etruschi, ad esempio, l'eroe era definito come Herχle Unial clan, dunque «figlio di Uni», cioè di quella medesima dea H́ēra che in Grecia era invece nemica acerrima dell’eroe. D'altra parte, è facile constatare che il nome stesso dell’eroe contiene in sé quello della dea (Hēraklês, «gloria di H́ēra»); da questo dettaglio sembra di capire che, sotto il facile motivo di un Hēraklês figlio di Zeús, vi sia uno strato più antico, e diverso. Uno studio incentrato sulla figliolanza di Hēraklês dal dio-cielo Zeús, che non tenga conto di tali difficoltà, sarà dunque viziato in partenza.


La questione è che il mito di Hēraklês è assai complesso e sfaccettato, e rovistando nella ricca biografia dell'eroe, possiamo praticamente trovare tutto quello che fa comodo alla nostra ricerca. Al contrario di quel  che si potrebbe ritenere, poter scegliere tra tanti dati non favorisce il rigore di una ricerca, a meno di non definire preventivamente quali elementi siano più importanti o significativi. Ad esempio, il ciclo delle dodici fatiche caratterizza Hēraklês in modo piuttosto specifico, anche se, andando ad analizzare i singoli episodi, scopriamo che alcuni sono più significativi di altri. L’uccisione del leone e la cattura del toro, ad esempio, sono motivi assai più pregnanti (e più antichi, almeno se giudichiamo dal parallelo con l’epopea di Gilgameš) di quanto non sia l’inseguimento la cattura del cinghiale o l'inseguimento della cerva.


Analogamente, molti elementi secondari del mito di Hēraklês, quale ad esempio la lotta con il gigante berbero Antaíos, o col dio-fiume Achelôjs, o la bizzarra apparizione dell’eroe in abiti femminili, paiono assai più antichi di molti altri motivi in seguito assurti a "canonici".


Un lavoro su Hēraklês, dovrebbe dunque tenere conto del peso dei dati che utilizziamo come premesse. Quanto sono significativi? Quanto specifici? Quanto definitivi? E ancor di più, appartengono al più antico strato del personaggio, o possiamo ascriverli come interpretazioni e aggiunte posteriori? Non sempre si può dare una risposta definitiva a tali domande. Senso critico e prudenza sono le migliori chiavi per procedere nel nostro studio.


Non dimentichiamo, infine, che raramente i diversi testi si presentano in maniera coerente. Anzi, le contraddizioni, nel nostro studio, sono più la regola che l'eccezione. Esse vanno mai ignorate. Se un dato X fa comodo alla nostra ipotesi, è giusto citarlo, ma se una fonte Y lo contraddice, è doveroso segnalare il problema. Le due fonti, infine, potrebbero non avere lo stesso peso, e se la più autorevole è Y, il dato X perde necessariamente di peso. E dobbiamo ammetterlo francamente. A tacere Y per far valere X, non rende la nostra ipotesi più solida. Convincerà il pubblico di bocca buona, ma non gli specialisti.

venerdì 4 marzo 2011

A scuola di mitologia - 2


Analisi delle fonti primarie

Ogni lavoro sui miti non può essere disgiunto da un'attenta analisi delle fonti primarie. Quali testi hanno trasmesso un nome, una vicenda, un'interpretazione? Quali erano le intenzioni dei loro autori? Si tratta di testi epici, gnomici, storici, religiosi, letterari? Cosa significava questa o quella fonte all'interno della cultura di riferimento? Oppure, quanto era lontana da essa?


Ad esempio, i poemi dell'Edda poetica risalgono perlopiù a un tempo in cui il paganesimo nordico era ancora vivo e vitale; ma l'Edda di Snorri è stata scritta in un'epoca posteriore, in cui il paganesimo era pressoché scomparso dalle terre del nord e gli antichi poemi già richiedevano dotte spiegazioni e interpretazioni.  Sono particolari di cui bisogna tenere conto, allorché si prendono in considerazione notizie desunte dagli una o dall'altra fonte.


Inoltre, i testi vanno esaminati sia per sé stessi, sia in relazione reciproca. Ad esempio, è certamente possibile leggere l'Edda poetica alla luce dell'interpretazione a posteriori che ne dà Snorri, ma si rischia di perdere il punto di vista dei poemi eddici stessi, la cui ermeneutica va innanzitutto interpretata singolarmente.


Le notizie presenti nelle fonti più antiche vanno analizzate separatamente dai loro strati interpretativi, prima ancora che alla luce di questi. L'analisi incrociata delle fonti deve avvenire sempre in un secondo tempo, e richiede necessariamente un livello di cautela maggiore.


Poiché siamo naturalmente portati a leggere una fonte alla luce di ciò che abbiamo imparato da altri testi, diviene anche interessante evidenziare le cose che un testo non dice. Questo ci dà interessanti informazioni sull'evoluzione dei mitemi nel corso del tempo. Ricordiamoci che un mito si evolve fino a quando viene messo per iscritto: in quel momento viene cristallizzato nella sua forma definitiva. Smette di essere mito e diventa letteratura, e quindi rientra in un campo di studi i cui metodi d'indagine non possono esimere da quelli della critica letteraria.


Non tutte le fonti, infine, hanno lo stesso grado di attendibilità. Nella storia della filologia nordica, ad esempio, lo stesso Snorri è stato più volte soggetto a forti critiche per il modo in cui, secondo molti filologi, avrebbe rielaborato il materiale mitico. Per ogni testo che analizziamo, dobbiamo dunque chiederci quanto il suo autore abbia compreso del materiale originario e in che modo lo abbia, consciamente o inconsciamente, deformato. L'analisi incrociata delle fonti permette di capire, in certa misura, come le informazioni siano state trasmesse dall'una all'altra, come siano stato elaborate o spesso fraintese.


Come sembra ovvio, i testi più antichi sono più vicini alle culture di riferimento, mentre quelli più recenti presentano un più alto grado di interpretazione e rielaborazione letteraria. Questo è vero nella maggior parte dei casi, ma non è una regola. A volte capita che un testo recenziore contenga elementi più antichi rispetto ad uno precedente. Ad esempio, la ruvida Völsunga Saga (fine XIII sec.) è sicuramente successiva al Nibelungelied (inizio XIII sec.), ma è assai più vicina alla leggenda originale di quanto non sia il poema tedesco, che ne è una rielaborazione in stampo cavalleresco, eseguita da un poeta di corte.


martedì 1 marzo 2011

A scuola di mitologia - 1


Iniziamo con questo post un'analisi delle difficoltà a cui l'appassionato di miti e leggende va incontro nei suoi studi, e gli errori più frequenti che rischia di commettere. Cercheremo di evidenziare le metodologie di ricerca più corrette, o perlomeno più oneste, evidenziando quali siano le necessarie cautele nel trattare il proprio materiale. Questo post è anche un manifesto di metodo e intenti del sito Bifröst.





Limiti, metodi e cautele nello studio della mitologia


Un'analisi totalmente «scientifica» di miti e leggende è impossibile. Quando abbiamo a che fare con la mitologia, qualunque ricerca, anche quella più rigorosa, non può che basarsi su schemi interpretativi imposti dall'esterno. Tali schemi introducono una certa dose di arbitrio: ciascuno studioso tenderà a mettere in luce certi aspetti a detrimento di altri, a seconda dei fini che si prefigge.


Ora, una pluralità di approcci è senz'altro benvenuta, ma vi è anche il rischio, lavorando su una materia tanto soggetta all'interpretazione, che lo studioso finisca con il piegare i dati a sua disposizione al fine di dimostrare le sue ipotesi. C'è insomma il serio rischio di fare dell'apologesi. Il ché è l'esatto contrario di una ricerca onesta e imparziale.


Il guaio è che, mancando un sistema probatorio sicuro e inoppugnabile, molti mitologi si sentono legittimati nel manipolare i loro dati, arrivando inevitabilmente alla conclusione che ritengono corretta.


Che lo studio dei miti abbia spesso basi fragili e incerte, è cosa risaputa. Anzi, è una difficoltà che fa parte delle regole del gioco. Ma se questa difficoltà ci dispensa dal dover fornire dimostrazioni inoppugnabili, non ci esonera dall'obbligo etico di applicare la massima onestà intellettuale.


In questo campo, stante che si lavora quasi sempre su ipotesi, l'incertezza la fa da padrona, e il mitologo serio è tenuto in ogni momento a dichiarare la validità delle proprie premesse: si tratta di un dato certo? di una teoria? di una interpretazione?


Sarebbe bello conoscere il preciso grado di attendibilità di ogni singola premessa: possiamo utilizzare però il buon senso, e il criterio sempre valido della massima prudenza. Sembra ovvio, ma così non è che se un ragionamento parte con tre premesse incerte, la conclusione non sarà mai un sicuramente, ma un incerto al cubo. In quanti libri, anche di vasta diffusione, l'autore parte da dati costruiti ad hoc, senza tener conto della loro validità!


E dunque, date tali difficoltà di partenza, preso atto di una certa dose di arbitrio nella ricerca, è comunque sempre possibile raffinare i nostri metodi di studio, analizzando criticamente il materiale a disposizione e massimizzando la cautela nei nostri ragionamenti.




Argomento della mitologia


Lo studio della mitologia si occupa di quelle figure e racconti tradizionali che sono alla base del patrimonio culturale di tutte le civiltà, e in qualche mondo «fondanti» per la visione del mondo, la religione, le istituzioni sociali e politiche, la cultura tanto materiale quanto intellettuale di ogni popolo della Terra, nessuno escluso. Ma non è questa la sede per discutere le funzioni e la  natura del mito. Ci interessa qui stabilire quali sono gli elementi che possono essere studiati nella mitologia:




  • Personaggi.  I soggetti dei racconti mitici. Divinità, eroi, animali, mostri, con i loro tratti caratteristici, nomi, attributi e funzioni.

  • Funzioni e attributi. Elementi e ruoli caratteristici dei personaggi, trattati sia singolarmente, sia in relazione ai loro possessori.

  • Narrazioni. I racconti mitici e leggendari, sia nei loro tratti generali che nei loro addentellati.

  • Strutture. Le interrelazioni tra vicende, personaggi e funzioni.


Ognuno di questi elementi può essere trattato di per sé stesso o in relazione reciproca. Ad esempio, un racconto può essere analizzato sia prescindere dai suoi protagonisti, che in relazione ad essi. Un attributo può essere studiato come elemento a sé stante, o in relazione ai personaggi che lo detengono.