domenica 16 gennaio 2022

Mitologia e folklore ungherese: La spada di Dio

 

Titolo originale: Az Isten kardja

Tratta da Benedek Elek, Magyar mese- és mondavilág

Vi ho già narrato dei figli di Nimród: Hunor e Magyar si erano stabiliti in quel bel territorio isolato dove li aveva condotti il csodaszarvas, il “cervo meraviglioso”. Ebbene, Hunor e Magyar sarebbero anche rimasti in questo territorio, ma non era trascorso neanche un anno che la stirpe degli unni e dei magiari si erano moltiplicate a tal punto da non avere più né acqua, né pane a sufficienza. Entrambe le stirpi si misero per via e migrarono attraverso monti e valli, siepi e fossati e camminarono, camminarono fino a giungere in Scizia.

[…]

Ebbene, il tempo passò e la Scizia non fu più sufficientemente ampia per i discendenti di Hunor e Magyar.

I capi delle tribù si radunarono, si consigliarono in merito a dove, da che parte condurre il popolo, perché oramai la Scizia era piccola per loro. I capi delle tribù unne consigliavano di andare verso occidente, mentre i capi delle tribù magiare suggerivano di ritornare nelle loro sedi originarie: gli unni e i magiari si separarono. Ma i discendenti di Hunor dissero loro che invano sarebbero ritornati indietro, non ci sarebbe stato spazio a sufficienza: avrebbero fatto meglio ad andare verso occidente, forse Dio li avrebbe condotti nel luogo in cui le stirpi degli unni e dei magiari avrebbero potuto vivere fino alla fine del mondo.

«Partite voi,» dissero i magiari, «noi rimarremo qui. Se troverete una terra abbastanza grande, fateci pervenire notizia e vi raggiungeremo. Se non la troverete, tornate indietro, e ci accomoderemo come meglio potremo, stringendoci un po’. […]»


Nikolaj Rerich, Gesar Khan. Wikimedia Commons.


Tutti approvarono questo discorso, così gli unni partirono, mentre i magiari restarono.

Ma proprio mentre stavano per mettersi per via, congedandosi, Attila, figlio di Bendegúz, prese a dire:

«A chi resterà la Isten kardja, la “spada di Dio”, agli unni oppure ai magiari?».

Perché, prima che me ne dimentichi, dovete sapere che quando i magiari e gli unni avevano occupato la Scizia, Dio aveva donato loro una spada per aiutarli a sconfiggere quei popoli.

Questa spada era chiamata Isten kardja, la “spada di Dio”, ed era passata di generazione in generazione. I táltosok[1] dicevano: «Fino a quando disporrete di questa spada, non dovrete temere alcun popolo, perché Dio sarà con voi».

I capi delle tribù magiare si guardarono l’un l’altro, non sapevano come rispondere. Convocarono i saggi, affinché decretassero la cosa giusta da fare. I saggi si consultarono per tre dì e tre notti e decisero di affidarla a un uomo cieco che avrebbe dovuto brandirla sette volte, dopodiché l’avrebbe lasciata cadere: se fosse caduta con la punta rivolta verso occidente, l’avrebbero presa con sé gli unni, se verso oriente, allora sarebbe rimasta ai magiari.

Al che tutti si misero l’animo in pace. Un vecchio canuto fu condotto al cospetto dei saggi e gli diedero la spada.

«Brandiscila sette volte, dopodiché lasciala cadere a terra!»

Il cieco fece come gli era stato ordinato. Dopo aver brandito la spada per la settima volta, la fece cadere, ma - meraviglia delle meraviglie! -, la spada non cadde a terra. Improvvisamente si levò un vento vorticoso, sollevò la spada in volo, portandola con sé verso occidente, finché d’un tratto sparì e nessun occhio umano riuscì più a vederla...

«Guardate, guardate,» disse Attila, «Dio vuole che andiamo verso occidente! Non datevi pena a inseguire la spada, la ritroveremo ugualmente e quando ciò accadrà vi faremo pervenire notizia e verrete anche voi, vedrete!»

Gli unni partirono carichi di speranze: in testa l’anziano Bendegúz e ai suoi lati i due prodi figli, Attila e Buda. Dietro di loro un mare di gente, chi a piedi, chi in sella al cavallo. Si fermavano di tanto in tanto in boschi e prati, lungo corsi d’acqua, esaminavano le terre, le acque fin dove riuscirono a penetrare, ma non trovarono ciò che desideravano fino a quando giunsero tra il Danubio e il Tibisco.

Questo territorio piacque loro immensamente. Dissero con il cuore traboccante di gioia che non avrebbero proseguito e che sarebbero rimasti lì.

Ma non poterono stabilirvisi, perché giunse il testardo Teodorico con un enorme esercito: le genti che abitavano lungo il Danubio e il Tibisco, in preda al panico, li avevano chiamati in loro aiuto da terre lontane.

Annunciò agli unni che avrebbero potuto rimanere lì per tre dì e tre notti, poi se ne sarebbero dovuti andare con Dio.

Bendegúz rispose: «Stammi bene a sentire, tu, Teodorico testardo, non c’è bisogno che mi mandi queste missive, noi non ce ne andremo di qui».

Il testardo Teodorico non fece pervenire più alcun messaggio, si mise in marcia con l’esercito. Lo stesso fecero gli unni guidati da Bendegúz, ai suoi lati i due prodi figli, Attila e Buda. I due eserciti, simili a violente nubi di tempesta, si scontrarono in campo aperto e nel corso della battaglia il Danubio straripava, tanto era il sangue che andava riversandosi nelle sue acque.[2]

Se il Danubio era straripato, ciò non era accaduto invano, ma per aiutare gli unni che erano usciti vincitori dallo scontro e ora quella bella regione era in loro possesso.

[...]

Nel frattempo l’anziano Bendegúz era morto e Attila fu proclamato re. E da quel giorno Attila non ebbe in testa nient’altro che la Isten kardja, la “spada di Dio”. Se solo l’avesse trovata!

Un giorno fece un sogno talmente meraviglioso da non riuscire a comprenderne il significato. Fece chiamare a raccolta i veggenti e disse loro:

«Statemi a sentire, stanotte ho fatto un sogno meraviglioso. Interpretatelo come sapete fare! Mi ricordo come se fosse accaduto sotto il sole splendente, che un vecchio canuto era sceso dal cielo per venire da me e mi fissò alla cintola una spada lucente [...]. Guardo e riguardo la spada che sembra essere la Isten kardja. E in qualche modo la spada di Dio si sollevò sotto ai nostri occhi e, veloce come un vento vorticoso, prese con sé anche me medesimo, facendomi sorvolare boschi, monti, mari, pianure sterminate, enormi città. E mentre volavo di tanto in tanto tiravo qualche fendente ed ecco i boschi si piegavano, fiumi e mari si separavano, le città si incendiavano. Dopodiché mi svegliai. Ditemi, táltosok, cosa significa questo mio sogno!».

Si fece avanti Torda, il táltos più anziano, e disse:

«Vostra maestà reale, metto la mia vita e la mia morte nelle vostre mani, il vostro sogno significa che la Isten kardja sarà ritrovata e da allora conquisterete il mondo intero».

[...]

Proprio in quell’istante corse da loro un pastorello ansimando dalla grande agitazione e disse ad Attila:

«Vostra maestà reale, ho trovato una spada nella puszta, eccola qui, prendetela dalla mie mani».

Attila guardò la spada, la rigirò tra le mani, la fece risplendere alla luce del sole, e cielo e terra rimbombarono dal suo grande grido di gioia.

«Questa è la Isten kardja, gente!»

[…]

Attila chiese al pastorello:

«Figliolo, dove hai trovato questa spada?».

«Vostra maestà reale,» disse il pastorello, «mentre seguivo la mia mandria, vidi che una giovenca nata in primavera si era ferita allo zoccolo. Guardai per capire che problema potesse avere e vidi che lo zoccolo posteriore sinistro sanguinava. Riflettei tra me: cosa mai aveva potuto ferirla se sulla puszta non c’è nient’altro che soffice erbetta? Guardo di qua, guardo di là e scorgo la punta di una spada spuntare dal suolo. L’afferro per estrarla ed ecco all’istante divampare fiamme dalla punta della spada. Ovviamente mi spaventai e mi allontanai di corsa, ma quando mi voltai, vidi che la spada era schizzata fuori da terra, girava e girava, come se fosse stato il vento a farla roteare. A un tratto la fiamma si ritrasse e la spada cadde distesa al suolo.

Presi coraggio, tornai indietro e presi la spada.»

«Questa è la Isten kardja, la “spada di Dio”, è proprio lei!», gridava il popolo.


Tulipán Tamás, Isten kardja. Wikimedia Commons.


Attila volle provarla. Per tre volte menò fendenti in ogni direzione, tanto da far fischiare l’aria.

«È lei, è proprio lei!», gioì Attila e diede subito ordine di accendere fuochi in lode a Dio che aveva restituito loro la Isten kardja, la “spada di Dio”.

Così si avverò quanto predetto dai táltosok, perché Attila conquistò veramente il mondo intero.


NOTE

[1] Antica figura di sciamano ungherese, in questo contesto sinonimo di “saggio”, “veggente”.

[2] Cfr. Dumézil, "Storie degli sciti": «Li sterminò e fece colare tanto sangue che un torrente impetuoso precipitò sugli Agurtæ che erano rimasti e li portò lontano dalla terra narta» (Dumézil 1980, p. 59).

[3] Jordanes nel De origine actibusque Getarum, cap. xxxv menziona la “spada di Attila” o “spada di Marte”, secondo l’interpretatio romana da lui adottata. Il ritrovamento della spada è analogo a quanto descritto nella presente fiaba: è infatti un pastore che segue la giovenca zoppicante a scorgere la spada insanguinata; la porta ad Attila il quale pensa di essere stato nominato sovrano del mondo intero da Dio stesso e che quindi gli sarà assicurata la vittoria in tutte le battaglie. Nella riscrittura proposta da Komjáthy István nel suo Mondák könyve (“Libro delle leggende”) la spada prende il nome di bűvös kard (“spada magica”). Attila sogna che la stella della sera (Hajnalcsillag) si reca in sella a un cavallo táltos dal manto di rame, al palazzo di Arany Atyácska (letteralmente “Babbo oro”) dove si trovano radunati i corpi celesti personificati. Era stato sancito che la bűvös kard sarebbe spettata a cui che si era distinto in battaglia e questo giovane prode viene identificato nella persona di Attila, il giovane che nella narrazione di Komjáthy ha la propria tenda presso il Tündérasszony kútja (“Pozzo della tündér”, “Pozzo della fata”). La stella della sera manda a prendere il carro delle stelle e Hadak ura (il “signore delle schiere”) toglie la spada dal fodero d’argento, la quale fa risplendere l’intero bosco d’oro. Dopo averla appesa alla cintola di Attila, le stelle interrompono il loro percorso per ammirarne lo splendore e lo stesso Arany Atyácska sorride. La narrazione relativa al ritrovamento della spada è identica a quanto descritto nella presente fiaba.




BIBLIOGRAFIA

Benedek 1995. Benedek Elek, Magyar mese- és mondavilág, Videopont Kft, Budapest (1a ed. 1894-1896, Budapest).

Dumézil 1980. Georges Dumézil, Storie degli sciti, a cura di Giuliano Boccali, Rizzoli, Milano (1a ed. fr. 1978, Payot, Paris).

Mitologia e folklore sámi: le donne del mare nelle fiabe popolari

 

LA FANCIULLA DEL MARE

Fiaba raccolta a Lebesby.

Titolo originale: Das Mädchen aus dem Meere.

Traduzione dal tedesco di Elisa Zanchetta

  

C’era una volta un contadino che aveva un unico figlio. Un giorno quest’ultimo andò a caccia e giunse a una baia dove la spiaggia era coperta dalla sabbia più fine e l’acqua chiara e limpida si spandeva splendente sul bianco suolo sabbioso. Il giovanotto si sedette sul limitare del bosco e tirò fuori dallo zaino il proprio pasto. Mentre mangiava di gusto, dal mare comparvero tre fanciulle, risalirono la riva e adagiarono le loro vesti sul praticello, due di loro le appoggiarono nello stesso posto, la terza un po’ più distante dalle altre. Dopo che si furono spogliate, si avviarono nuovamente verso il mare per lavarsi. Si guardavano intorno, giocavano e scherzavano, scrosciavano con le mani nell’acqua.

Poi andarono nuovamente a riva, indossarono le loro vesti e, com’erano venute, altrettanto all’improvviso scomparvero.

Anche il giovanotto andò per la sua strada, ritornando tuttavia il giorno seguente per vedere se le fanciulle si sarebbero palesate nuovamente; pertanto cercò un nascondiglio da dove le avrebbe osservate da vicino senza essere notato. Se ne stava lì seduto da non molto quando le tre fanciulle si presentarono, facendo tutto ciò che avevano fatto la volta precedente; tuttavia, anche in questa occasione, il giovane contadino non le disturbò, notò però che la veste che una delle fanciulle lasciava lontana dalle altre era la più bella.

Il terzo giorno tuttavia si avviò con il proposito che se avesse rivisto le fanciulle per la terza volta, avrebbe nascosto la veste di colei che la appoggiava separatamente dalle altre. Questo pensò e questo mise in atto. Le fanciulle fecero nuovamente ritorno e mentre si facevano il bagno, il giovanotto sgusciò fuori, prese la veste più graziosa e la nascose. Dopo che le fanciulle si furono fatte il bagno e tornarono a riva, trovarono solo due delle loro vesti nel posto dove le avevano appoggiate, le indossarono e scomparvero; la terza, invece, non trovò la propria. Al che la sua ansia accrebbe e diventò triste, correva avanti e indietro, gridando:

«Ehi, a te che mi hai sottratto le vesti: se sei un uomo, ti prometto la fanciulla più cara che tu possa desiderare; se invece sei una fanciulla, di prometto lo sposo che desideri».

Allora il giovanotto uscì allo scoperto e gridò:

«Non ti restituirò le vesti fino a quando non mi avrai promesso di divenire tu stessa mia moglie».

La fanciulla piangeva e si lamentava, dicendo che ciò non era possibile.

«Non posso vivere qui, poiché qui non sono nata e parimenti tu non puoi vivere nel luogo da cui io provengo.»

Il giovanotto pensava che tanto non importava e le parlò e la supplicò talmente a lungo, fino a quando cedette promettendogli di divenire sua moglie, scoppiando in lacrime. La condusse dai propri genitori, la fece battezzare dandole un nome cristiano, dopodiché si unirono in matrimonio e dopo alcuni anni ebbero un figlio. Quando esso fu diventato grande tanto da essere in grado di camminare, accompagnò un giorno il padre alla dispensa. Nelle casse, tuttavia, da cui doveva prendere delle cose, si trovavano gli indumenti che al tempo aveva messo da parte e poiché al fanciullo sembravano particolarmente belli e rari, chiese al padre a chi mai potessero appartenere. Al che il padre non diede alcuna risposta, riponendo nuovamente le vesti al proprio posto.

Tuttavia il giorno seguente, mentre l’uomo era nel bosco, e la madre con il fanciullo erano rimasti soli, le raccontò delle vesti belle e rare che aveva visto assieme al padre nella dispensa. La madre prese per mano il bambino, dicendogli di mostrarle dove si trovavano queste rarità. Appena aprì la cassa, riconobbe le proprie vesti che un tempo aveva portato con sé venendo dal mare e provò gioia e tristezza allo stesso tempo; le prese e le portò con sé nella stanza: qui le indossò, baciò il figlioletto che era rimasto sulla soglia a guardarla, si recò sulla riva e sparì in mare da dove era venuta.

Quando l’uomo fece ritorno a casa e non vide la moglie da nessuna parte, chiese al bambino:

«Dov’è la tua mamma?».

«La mamma», disse, «è andata al mare.»

L’uomo pensò subito che aveva ritrovato le sue vesti di donna del mare che egli aveva riposto nella cassa e che avesse fatto ritorno alla sua vecchia dimora. Divenne pertanto molto triste, non sapendo cosa fare; alla fine cercò Gieddagäts-galgjo[1] e le raccontò l’accaduto.

«Hai figli?», gli chiese.

«Sì,» rispose egli, «un figlio piccolo.»

«Allora non rattristarti più,» disse, «ritornerà a casa altre tre volte; ma se la terza volta la lascerai andare via, lei non tornerà mai più. Stanotte verrà per la prima volta; tuttavia non ti dovrai muovere nel letto, ma farai finta di dormire. Lei si siederà accanto al bambino, per un po’ lo accarezzerà e lo coccolerà. La seconda notte tornerà nuovamente e si comporterà allo stesso modo. Quando scenderà la terza sera, preparati un cantuccio nascosto dietro l’uscio, ma sistema il letto in modo tale che sembri che tu vi sia disteso a dormire. Quando lei giungerà per la terza volta, si tratterrà più a lungo; tuttavia nell’istante in cui lei starà per andarsene, prendila per la vita e tienila stretta con tutte le tue forze, parlale dolcemente e cerca di convincerla a restare con te. Quando avrà acconsentito e non tenterà più di divincolarsi dalla tua stretta, conducila nel letto e giaci con lei. Non appena si sarà addormentata, alzati silenziosamente, esci e trova le vesti che indossava quando era una fanciulla del mare. Si trovano in un angolo dell’abitazione, portali a me e farò in modo di tenerli lontani da qualunque occhio umano.»

Andò tutto come Gieddagäts-galgjo aveva previsto. Dopo che la madre era venuta dal bambino per la seconda volta e si approssimava la sera del terzo giorno, l’uomo fece come Gieddagäts-galgjo gli aveva consigliato. La lampada ancora ardeva quando udì avvicinarsi la moglie che aprì la porta senza far rumore e sgattaiolò nel posto in cui il bambino dormiva. Si sedette e iniziò ad accarezzare e a coccolare il bambinello. Quando stava per andarsene e si trovava in mezzo alla stanza, l’uomo l’afferrò, la tenne stretta e le rivolse dolcemente la parola, impiegando tutti i mezzi che conosceva per persuaderla, così alla fine lei si tranquillizzò e non tentò più di divincolarsi. Poi la condusse a letto e giacque con lei. Ben presto lei si addormentò profondamente e allora l’uomo la lasciò, si alzò e andò a cercare le vesti che aveva riposto davanti l’abitazione. Le trovò e le portò a Gieddagäts-galgjo, la quale gli disse:

«Nasconderò queste vesti in modo tale che nessun occhio umano le possa più vedere!». Dopodiché l’uomo ritornò a casa e si distese al fianco della moglie.

Da quel giorno condussero un’esistenza felice; tutto andava secondo i loro desideri e i parenti della donna portavano loro dal fondo del mare tutto


[1] Gieddagäts-galgjo o Gieddagäts-akka è il nome che la dea Sarakka assume nelle fiabe popolari sámi. A differenza delle altre divinità sámi di cui non è rimasto che il ricordo del nome, essa continua a svolgere un ruolo importante nelle narrazioni popolari. In esse viene rappresentata come una donna molto anziana, saggia e sempre benevola che sa tutto ciò che accade sulla terra e, in caso di situazioni difficili è in grado di prestare soccorso fornendo consigli e aiuti. A differenza di Sarakka, nelle fiabe Gieddagäts-galgjo non dimora più presso il focolare, bensì a giedda-gätje, ovvero ai confini del mondo abitato dall’uomo, da cui il suo nome Gieddagäts-galgjo. Essa svolge il medesimo ruolo della finnica Leskiakka (la “vedova-akka”). Proprio come quest’ultima, anche Gieddagäts-galgjo fu un tempo sposata, ma dopo la morte del marito vive completamente sola e isolata dal mondo. Von Düben mise in dubbio l’identificazione tra Gieddagäts-galgjo e Sarakka, sostenendo che si trattasse di una sorta di fata presa dai vicini popoli scandinavi.


Félix Ziem, The call of the sirens. Wikimedia Commons.



LA DONNA DEL MARE

Fiaba raccolta a Nässeby.

Titolo originale: Das Meerweib

Traduzione dal tedesco di Elisa Zanchetta

 

Una sera illuminata dal chiarore lunare, due fratelli andarono al mare per appostare una volpe che da lungi veniva sulla spiaggia per cercare pesce. Mentre erano lì seduti emerse dalle acque una donna del mare e si sedette su una roccia non molto lontana dalla spiaggia. Il fratello minore si accinse a sparare alla donna, ma il maggiore lo trattenne dicendogli:

«Non sparare, ci potrebbe accadere qualcosa di brutto se spari!».

Nel frattempo la donna del mare se ne stava seduta sulla roccia, aveva sciolto i suoi lunghi capelli e li pettinava. Di nuovo il fratello minore voleva colpirla, ma il maggiore lo distolse:

«Che cosa ti salta in mente? Non puoi lasciarla in pace? Non ci ha fatto niente! Per quale ragione le vuoi sparare?».

Il minore non si curava tuttavia di quanto il maggiore gli diceva, alzò il cane dell’arma e si appoggiò il fucile alla guancia. Quando il fratello maggiore se ne accorse, gridò alla donna del mare:

«Fai attenzione, donna del mare, altrimenti ti andrà a finire male!».

In quel medesimo istante sgusciò in acqua per poi riemergere parzialmente e gridare al fratello maggiore che le voleva bene:

«Se domani a questa stessa ora verrai qui, non avrai di che pentirti!».

Entrambi i fratelli andarono allora a casa. La sera seguente il fratello maggiore si recò da solo alla spiaggia e si sedette nel medesimo posto della sera precedente. Non era seduto lì da molto che giunse una volpe nera. La uccise. Subito dopo emerse dalle acque la donna del mare, si sedette sulla medesima roccia e gridò al giovane uomo di raggiungerla.

«Non devi temere nulla,» aggiunse, «non ti farò del male!»

Il giovanotto guadò le acque fino a raggiungere la donna del mare.

«Siediti sulla mia schiena», gli disse la donna del mare, «e affonda naso e bocca tra i miei capelli, in modo che non soffochi quando scenderemo nelle profondità del mare per giungere alla dimora di mio padre!»

Il giovanotto fece come la donna del mare gli aveva detto e questa si tuffò in mare con il ragazzo. Quando furono giunti sul fondo del mare, lei prese un’ancora, la porse al giovanotto dicendogli:

«Quando giungeremo alla casa di mio padre, egli vorrà vedere quanto sei forte; egli è cieco e tu non dovrai salutarlo dandogli la mano, ma porgendogli questa ancora!»

Giunsero nel luogo in cui abitava la donna del mare; qui non c’era acqua e non era neppure buio, ma era chiaro come una giornata soleggiata del mondo di sopra e l’acqua vi fluiva sopra come un tetto.

Dopo che il giovane uomo ebbe detto «Buon giorno» e porto l’ancora, il padre della donna del mare l’afferrò con tale impeto da piegarla su stessa. Diedero allora al giovanotto un’enorme quantità di oro e di argento a cui la donna del mare aggiunse anche un grande calice d’oro che un tempo era stato sulla tavola del re. Dopodiché risalirono allo stesso modo in cui erano discesi; al giovanotto sembrava allora che tutto il mondo fosse di vetro e la donna del mare lo ricondusse nel medesimo luogo in cui lo aveva preso con sé.

Il giovanotto divenne un uomo abbiente e in mare ebbe sempre la fortuna dalla sua parte. Il fratello minore, invece, che voleva colpire la donna del mare, appassì come un albero roso dal tarlo. Tutto ciò che faceva, tutto ciò che intraprendeva, aveva sempre un esito negativo: tutte le sue imprese furono costantemente segnate dai cattivi auspici.


Una fiaba sámi: "Il gigante la cui vita era nascosta in un uovo di gallina"

 


Fiaba raccolta a Utsjok

Titolo originale: Der Riese, dessen Leben in einem Hühnerei verborgen war

Traduzione dal tedesco di Elisa Zanchetta

 

Una donna aveva un uomo che da sette anni era in faida con un gigante. Costui trovava infatti piacere nella donna e voleva uccidere l’uomo per prendersi la moglie. Dopo sette anni riuscì alla fine a raggiungere il suo scopo; l’ucciso aveva tuttavia un figlio che, una volta cresciuto, pensò di vendicarsi contro il gigante che aveva ucciso il padre e aveva preso in moglie la madre. Tuttavia il giovane uomo non riusciva a ucciderlo né con il ferro, né con il fuoco. Tutto ciò che faceva o tentava non serviva a nulla: sembrava proprio che nel gigante non ci fosse vita.

«Cara mamma,» disse un giorno il figlio alla donna, «non sai per caso dove il gigante nasconde la propria vita?»

La madre non lo sapeva, tuttavia promise di chiederlo al gigante e quando costui un giorno era di buon umore, gli chiese, tra le altre cose, anche dove si trovava la sua vita.

«Perché me lo chiedi?», ribatté il gigante.

«Sì,» disse la donna, «se tu o io un giorno ci trovassimo in una situazione di necessità oppure di pericolo, è consolante sapere che almeno la tua vita è riposta al sicuro.»

Il gigante, che non sospettava alcun inganno, raccontò alla donna dove si trovava la sua vita e disse:

«Al largo di un mare infuocato c’è un’isola, sull’isola si trova un barile, nel barile una pecora, nella pecora una gallina, nella gallina un uovo e nell’uovo è contenuta la mia vita!».

Il giorno seguente il figlio si recò nuovamente dalla madre la quale gli disse:

«Allora, caro figliolo, ho ricevuto informazioni sulla vita del gigante; mi ha raccontato che non molto distante da qui si trova…», e narrò quanto aveva appreso dal gigante.

Disse il figlio:

«Allora devo procurarmi degli aiutanti per poter attraversare il mare infuocato».

Prese pertanto con sé un orso, un lupo, un astore e una gavia (colymbus glacialis) e si mise per via a bordo di un’imbarcazione.

Si mise a sedere nel centro della barca sotto una kota di ferro, tenendo presso di sé l’astore e la gavia, in modo che non bruciassero; lasciò invece che l’orso e il lupo remassero: è per questo motivo che l’orso ha la pelliccia nero-bruna e il lupo ha macchie nero-brune, perché entrambi portarono a termine la traversata sul mare infuocato le cui onde si innalzavano come fiamme.

Così giunsero sull’isola in cui si doveva trovare la vita del gigante. Dopo aver trovato il barile, l’orso ne colpì il fondo con la zampa, e ne saltò fuori una pecora, la quale fu acchiappata dal lupo, che la prese per una delle zampe posteriori e la ridusse in pezzi. Dalla pecora uscì in volo una gallina contro cui si lanciò l’astore, dilaniandola con i propri artigli. Nella gallina c’era un uovo che cadde in mare e sprofondò, al ché la gavia uscì in volo e si immerse per cercare l’uovo. Al primo tentativo rimase via molto tempo; poiché non riusciva a rimanere sott’acqua a lungo senza respirare, tornò nuovamente in superficie per prendere aria. Poi si immerse di nuovo, rimanendovi per un tempo maggiore del primo tentativo, non riuscendo tuttavia a trovare l’uovo. La terza volta lo trovò sul fondale marino, lo portò in superficie, consegnandolo al giovane uomo che ne fu molto felice.

Avviò un grande falò sulla riva e quando il fuoco fu considerevolmente alto, pose l’uovo in mezzo e remò immediatamente verso la riva opposta. Non appena giunse sulla terraferma, si affrettò ad andare direttamente alla fattoria del gigante per vedere se anche quest’ultimo aveva preso fuoco come l’uovo sull’isola.

La madre non era meno felice del figlio per il fatto che aveva tolto di mezzo quell’enorme mostro. Tuttavia era rimasta un po’ di vita nel gigante e poiché vide la gioia della donna, sbottò:

«Oh, io folle che mi sono lasciato abbindolare e ho svelato la mia vita a questa vecchiaccia!», e in quell’istante afferrò la canna in ferro con cui era solito aspirare il sangue dagli umani. La donna aveva tuttavia infilato un’estremità nelle braci del focolare, così egli ingurgitò tizzoni ardenti, cenere e fuoco, bruciandosi dentro. Dopodiché il fuoco si spense, e con esso anche la vita del gigante.

John Bauer, Troll på lur



 

Riferimenti bibliografici:

J. C. Poestion, Lappländische Märchen, Volkssagen, Räthsel und Sprichwörter. Nach lappländischen, norwegischen und schwedischen Quellen, Druck und Verlag von Carl Berold’s Sohn, Wien 1886.

Mitologia e folklore sámi: ulda (o gufihtar) nei racconti popolari sámi

 

Nei racconti popolari sámi compare una figura nota con i nomi di ulda (plurale uldras), ul’da, hal’de o gufihtar. A seconda delle narrazioni, essi possono essere creature ctonie o invisibili all’occhio umano, bellissime fanciulle seducenti oppure una sorta di spiriti adiutori che vanno in aiuto allo sciamano sámi. Essi non risiedono in un mondo opposto a quello dell’uomo, bensì parallelo, pertanto è possibile che queste due sfere entrino in contatto, implicando un necessario adeguamento dei sistemi, al fine di trovare un equilibrio. Vediamo di analizzare insieme i tratti principali di questa figura del folklore sámi.

Gli uldras sono creature ctonie o invisibili che possono essere d’ausilio oppure arrecare danno all’uomo. Da sempre in stretta relazione con i sámi, si dice che essi abbiamo appreso dagli uldras la pratica dello joik, le conoscenze necessarie per divenire noaidi (termine che designa lo sciamano sámi), nonché le pratiche di guarigione.

Diventano ostili se maltrattati oppure se si manca loro di rispetto. Inoltre, secondo un’antica credenza sámi, gli uldras scambiavano il bambino lasciato solo nella kota con una propria creatura (sovente un loro anziano): se i genitori si accorgevano subito dello scambio e iniziavano a frustare il bambino con rami ardenti di ginepro, gli uldras avrebbero restituito il bambino, riprendendosi il proprio, altrimenti i genitori avrebbero continuato a vivere con la creatura-ulda che, a dispetto dei normali bambini, non cresceva ed era debole oppure disabile. Per proteggere il bambino gli venivano stretti attorno alla fronte tre lacci colorati ornati con bottoni d’argento, in modo da impedire lo scambio che poteva avvenire solo prima del battesimo, dopo di che gli uldras non avrebbero più osato avvicinarsi al bambino benedetto con la croce e a cui era stato imposto un nome. Un racconto proveniente dal comune norvegese di Loppa narra di una donna che, dopo essersi accorta che il figlio le era stato scambiato, prende un ramo e si mette a picchiarlo fino a farlo urlare dal dolore; giungono un uomo e una donna che la implorano di non tormentare più il loro anziano padre e le restituiscono il figlio. (cfr. il racconto norvegese De underjordiske, II, "Gli esseri sotterranei, II", di Theodor Kittelsen [in Taglianetti 2017, pp.54-57]).


John Bauer, The changeling (1913). Wikimedia Commons.


Gli uldras possono essere visti dalle persone in rare occasioni e l’incontro avveniva per caso, oppure per loro iniziativa. Un giorno due fanciulle stavano facendo una passeggiata e all’improvviso una delle due, Magga, una bellissima ragazza, scomparve. Il giorno successivo riuscirono a rincasare insieme, ma Magga era stata gravemente ferita dai gufihtar tanto da riuscire a malapena a parlare e camminava così male da far pietà. Magga narrò che mentre era presso i gufihtar aveva visto le persone che la stavano cercando e che talvolta avevano camminato molto vicino a lei. La sua scomparsa e il fatto che non potesse essere vista dagli umani indica che era stata confinata in un mondo interdetto a coloro che non avevano il consenso del popolo sotterraneo. Quando una persona veniva rapita dagli uldras era fondamentale che non toccasse il loro cibo, altrimenti non avrebbe più fatto ritorno tra gli uomini.


John Bauer, I julnatten (1913). Wikimedia Commons.


Si narra che gli uldras siano vestiti come i sámi e che sorveglino e gridino alle renne facendo abbaiare i cani e suonare le campanelle degli animali, ma rimanendo sempre invisibili all’uomo. Se una persona avendo udito il rumore chiede al compagno: «Hai sentito?», non si udirà più alcun rumore. Gli uldras possiedono renne, mucche, pecore e seconda che essi siano allevatori oppure fattori. Se ne vanno in giro con suopunki (“lazo”) e redini gettati sulle spalle e fumando tabacco. Hanno gli stessi tratti fisici distintivi del popolo sámi. Indossano inoltre il gákti, tradizionale abito sámi strettamente connesso alle proprie origini, i cui motivi decorativi forniscono informazioni sul luogo d’origine di chi lo indossa. Esistono diversi tipi di uldras, proprio come ci sono differenti gruppi di sámi: alcuni sono colonizzatori e fattori, altri sono dediti all’allevamento delle renne. Il mondo degli uldras viene pertanto presentato come un riflesso del mondo dei sámi: si tratta di un mondo comprensibile all’uomo, tuttavia inaccessibile. Gli uldras non sono considerati outsider, pertanto il matrimonio tra sámi e uldras veniva tollerato.

Agli uldras piacciono le persone che parlano in maniera appropriata; si dice a tal proposito che adorino gli individui dai capelli neri, onesti e che sanno parlare bene. Tutto ciò allude anche alla capacità di saper parlare o rimanere zitti all’occorrenza. Gli uldras devono essere rispettati attraverso sacrifici e tenendo presente la loro potenziale presenza quando vengono allestiti nuovi villaggi, in quanto essi appartengono all’ambiente a cui l’uomo deve adattarsi. Un racconto narra di un uomo che vide una mucca-ulda e l’amico gli consigliò di lanciare un coltello sopra l’animale in modo che finisse dall’altro lato: in questo modo poté entrare in possesso della mucca-ulda. Poco dopo si presentò un’anziana signora che voleva riprendersi la mucca e loro acconsentirono senza opporre resistenza, poiché erano buone persone. Lo stesso compare in altre narrazioni in cui un uomo, che si era impossessato di una mucca-ulda, la restituisce a un’anziana ulda, ricevendo in cambio un anello d’oro. 

Gli uldras o gufihtar posso essere delle bellissime ragazze e molte storie narrano di giovani ragazzi che vengono abbagliati dalla loro irresistibile bellezza e seduzione: essi si invaghiscono di tali fanciulle ma appena tentano di avvicinarsi per conquistarle, esse scompaiono e il giorno seguente, quando il ragazzo fa ritorno nello stesso luogo per incontrarla nuovamente, sente solamente una voce femminile intonare uno joik e immagina possa trattarsi della sua amata. Se la fanciulla-ulda viene privata dei propri averi, essa non può fare ritorno alla casa dei genitori. In un racconto un ragazzo le sottrae la sciarpa di seta e la cintura e se ne torna a casa; la fanciulla lo raggiunge, si mette sulla soglia, chiedendogli con insistenza che le vengano restituiti i suoi averi, altrimenti il padre e la madre l’avrebbero rimproverata in modo sempre più severo. Infine, le restituisce quanto sottratto e lei torna a casa, ma il contatto con il ragazzo e il fatto simbolico che lui abbia tenuto con sé i suoi indumenti, implica che la fanciulla-ulda è intrappolata tra due mondi; i suoi genitori non le avrebbero mai permesso di donare parte della sua femminilità a un uomo, seppur rappresentata della sua sciarpa e della cintura. Toccare una siffatta fanciulla ha serie conseguenze per il giovane. In una fiaba intitolata Das ulda-Mädchen (“La fanciulla-ulda”), il giovane punge con un ago la ragazza, facendole perdere qualche goccia di sangue: quando un ulda perde sangue diventa umano, dopo che una ragazza-ulda è stata toccata, ella è per sempre intrappolata nel mondo degli uomini ed è costretta a contrarre matrimonio con il ragazzo umano.

John Bauer, Sagan om äldtjuren Skutt och lilla prinsessan Tuvstarr (1913). Wikimedia Commons.


La fanciulla ulda

Titolo originale: Das Ulda-Mädchen

Traduzione dal tedesco di Elisa Zanchetta


C’erano una volta due giovanotti che corteggiavano la stessa fanciulla. Quando giunse la primavera i due giovanotti con la fanciulla, in compagnia di altre persone, si recarono su un’isola situata al largo, perché dovevano pescare. Sull’isola erano state costruite delle casupole per pescatori, perché da tempo immemore questa località era nota come un eccellente luogo di pesca dove le persone si intrattenevano generalmente fino all’autunno.

La fanciulla ed entrambi i giovanotti abitavano nella medesima casupola e pescavano nella stessa barca. A poco a poco uno dei due ragazzi iniziò a notare che la fanciulla gli dedicava minori attenzioni rispetto al suo compagno. Perciò ne era molto irritato e rifletteva sul modo in cui potersi sbarazzare del rivale.

Quando i pescatori intrapresero il viaggio di ritorno, fece in modo che lui, la fanciulla e il compagno fossero gli ultimi a lasciare il luogo di pesca. Quando poi anche loro ebbero portato le loro cose nella barca, ed erano già pronti per allontanarsi dall’isola, il giovanotto a cui la fanciulla non badava disse al suo compagno:

«Ah, mi sono dimenticato il coltello su nella casetta; sii buono e fai un salto a prendermelo».

Il ragazzo ci andò senza sospettare il benché minimo inganno, ma non si era allontanato di molto che il compagno sciolse gli ormeggi e partì remando assieme alla fanciulla.

Ora era completamente solo sull’isola e per aiutarsi non disponeva altro che del coltello lasciatogli dal compagno. Si costruì un arco con il quale uccideva uccelli marini che arrostiva sul fuoco. In questo modo campò fino a Natale. Alla vigilia ammassò una maggiore quantità di legna da ardere che impilò davanti l’ingresso della casupola per evitare di andare a raccoglierne dell’altra durante il periodo natalizio.

Di sera, dopo aver ultimato la catasta di legna, si sedette un po’ sull’uscio a guardare verso la terraferma e fu sopraffatto dallo struggimento. Fu allora che notò una barca diretta verso l’isola. Il giovanotto ne fu molto felice, perché credeva fossero persone che venivano sull’isola. Ma a mano a mano che la barca si avvicinava gli sembrò che fosse essa stessa di strana foggia e, dopo che ebbero ormeggiato e le persone scesero a terra, notò subito che non erano Albma-olmuk, cioè persone di questo mondo o vere persone, bensì ulda-olmuk. Si appiattì dietro la catasta di legna e si nascose in modo da non essere visto.


John Bauer, Trollmor och pojken smögo sig ut ur berget (1914). Wikimedia Commons.


Le persone scesero sull’isola: si trattava di una numerosa comunità che aveva con sé ogni sorta di cianfrusaglie. Tra le donne c’erano due giovani fanciulle molto belle e graziosamente vestite: quando l’intera schiera entrò nella casupola, notò che ciascuna delle ragazze portava una cassetta di vettovaglie. Dopo che tutte le cianfrusaglie furono portate nella casupola, entrambe le fanciulle uscirono nuovamente per fare un giro dell’isola; fu allora che notarono il giovanotto appiattito dietro la catasta di legna. Dapprima si spaventarono un po’ ed erano sul punto di scappare, ma poiché il giovanotto se ne stava lì tranquillo, si avvicinarono e iniziarono a ridacchiare, ridere e a fargli ogni sorta di scherzi.

Il giovanotto aveva uno spillo nella manica della giacca. Mentre gli saltellavano intorno, strattonandolo di tanto in tanto, attese il momento propizio e punse una della due fanciulle alla mano, tanto da farla sanguinare. La fanciulla punta iniziò a gridare e a lamentarsi. Allora accorsero anche gli altri che si trovavano nella casupola per vedere cosa fosse successo; ma non appena videro il giovanotto tornarono subito indietro, raccolsero in fretta e furia quanto avevano portato - quanto ciascuno riusciva a portare -  e si allontanarono.

In un istante tutti erano scomparsi, persone, cianfrusaglie e barca, eccetto un mazzo di chiavi rimasto sul tavolo e la fanciulla che era stata punta dal giovanotto: ella era completamente priva di forze e indifesa.

«Ora mi dovrai prendere in moglie,» disse la fanciulla, «perché mi hai punta, tanto da farmi sanguinare!»

«Certo, eccome no,» rispose il giovanotto, «lo farò volentieri, ma come pensi che potremo trascorrere l’inverno sull’isola?»

«Non c’è nessun motivo di preoccuparsi,» disse la fanciulla, «se mi prometterai di prendermi in moglie, avrai una parentale benestante!»

Il giovanotto prestò giuramento e così vissero insieme sull’isola fino alla primavera quando le persone uscirono nuovamente a pescare e con le quali fecero poi ritorno sulla terraferma.

«Dove dobbiamo recarci ora?», chiese la fanciulla al giovanotto.

«Non lo so,» disse il giovanotto, «tu cosa ne pensi?»

La fanciulla disse che sarebbe stato meglio stabilirsi nel luogo in cui vivevano i suoi genitori, «ma solo se lo vorrai», aggiunse.[1]


John Bauer, Tuvstarr (1913). Wikimedia Commons.


«Perché no?», rispose il giovanotto e così si misero per via e trovarono un posto tranquillo dove abitare.

«Ora devi misurare tu stesso lo spazio che sarà occupato dalla casa,» disse la fanciulla, «puoi sceglierlo grande o piccolo, come su vorrai!»

Il giovanotto prese le misure.

Quando di sera andarono a coricarsi, la fanciulla gli disse:

«Se di notte mentre dormiamo dovessi udire qualche rumore, non dovrai alzarti per andare a vedere che cos’è!».

Di notte egli udì rumore di muri in costruzione, di legna che veniva spaccata per innalzare le pareti, di ceppi spaccati e di martellate, ma non si mosse. Al mattino, quando lui e la fanciulla si furono alzati, si guardarono attorno ed ecco lì ergersi la casa bell’ e pronta in ogni singola parte.

«Ora devi misurare lo spazio che sarà occupato dalla stalla,» gli disse la fanciulla il giorno seguente, «sceglilo in modo che non sia troppo grande, ma neppure troppo piccolo!»

Il giovanotto prese le misure.

Anche quella notte udì rumore di muri in costruzione, di legna che veniva spaccata per innalzare le pareti e di martellate. Al mattino la stalla era ultimata con pilastri, secchi per il latte e ceppi, soltanto le vacche mancavano. Ora la fanciulla chiese al giovanotto di misurare lo spazio per la dispensa, che poteva essere grande quanto voleva. Quando anche la dispensa fu pronta, lo invitò ad andare dai propri genitori. Vi si recarono e si intrattennero tutto il tempo che a lei piacque. Quando poi giunse il momento di fare ritorno a casa, la fanciulla disse al giovanotto:

«Dopo che ci saremo congedati e staremo per andarcene, fai molta attenzione ed esci di casa più veloce che puoi!».

Il giovanotto fece come gli aveva detto la fanciulla e proprio nell’istante in cui uscì dalla porta, il padre gli scagliò contro un grande martello. Se non fosse stato così veloce, ma avesse indugiato anche solo per un attimo, il padre gli avrebbe mozzato entrambe le gambe.

Quando poi ebbero percorso un buon tratto della strada del ritorno, la fanciulla disse:

«Ora non dovrai voltarti fino a quando non sarai giunto a casa, qualsiasi cosa tu udirai o percepirai!».

Il giovanotto prestò giuramento, ma quando ebbe varcato la soglia di casa, non riuscì più a trattenersi e si voltò: nel recinto c’era l’esatta metà di una grande mandria inviata dai suoceri, l’altra metà stava ancora fuori e scomparve all’istante.

Dopodiché la coppia si fece unire in matrimonio dal sacerdote, ebbero dei figli e vissero felici e contenti. L’unica cosa che non piaceva all’uomo era il fatto che la moglie sparisse di tanto in tanto senza che lui riuscisse a scoprire dove si recava. Quando un giorno si lamentò, la donna, che amava molto il  consorte, gli disse:

«Caro marito, se non ti sta bene che io qualche volta me ne vada, non devi fare altro che piantare un grosso chiodo sulla soglia di casa, così io non potrò più uscire, a meno che non sia tu a volerlo!».




[1] Nei racconti popolari gli uldras consigliano ai sámi che stanno fuggendo da un pericolo di erigere la propria kota nel loro mondo sotterraneo per vivere indisturbati.


La gente del mare

Fiaba raccolta a Nässeby

Titolo originale: Meerleute

Traduzione dal tedesco di Elisa Zanchetta

 

C’era una volta un uomo che aveva due figli: uno era litigioso e bestemmiava sempre, l’altro era una pasta d’uomo e pacifico. Un giorno uscirono in mare per pescare. Dopo che ebbero riempito la barca di pesci remarono nuovamente verso la riva, accesero il fuoco e prepararono la cena. Dopo aver mangiato, il padre e i due figli si distesero per dormire, ma il minore non aveva sonno. Per passare il tempo andò a camminare lungo la riva del mare. Lì notò una piccola imbarcazione a remi che si stava avvicinando all’isola; si sedette su una roccia per attendere e vedere chi se ne veniva tutto solo soletto. Quando la barca si fu avvicinata, qualcuno a bardo gridò al ragazzo:

«Cosa te ne fai, tu, lì seduto a guardare?».

«Ah, volevo solo vedere chi stava arrivando», rispose il ragazzo.

Nella barca c’era un anziano signore.

«Sali sulla barca, ragazzo mio, andremo al largo a pescare con le reti a mano», disse il vecchio.

Il giovane saltò in barca e remarono fuori dall’insenatura. Tuttavia, una volta giunti in mezzo al fiordo, si alzò una nebbia così fitta da non riuscire in alcun modo a vedere la terraferma.

«C’è una nebbia così fitta», disse il ragazzo, «che temo non rivedremo mai più la terraferma.»

«Ah, non ti preoccupare,» disse il vecchio, «non ce n’è alcun bisogno.»

Dopo che ebbero remato per un altro po’, videro in lontananza qualcosa di non ben definito che assomigliava a un villaggio.

«Che razza di villaggio è quello?», chiese il ragazzo.

«È il nostro villaggio», disse il vecchio.

Quando si furono avvicinati a terra, i figli del vecchio risalirono la riva per aiutarlo con la barca. Il ragazzo iniziò ad arrabbiarsi, non riusciva a immaginare dove era capitato: non conosceva né il paese, né la riva, né il popolo.

«Vieni, seguimi e andiamo nel villaggio!», disse il vecchio.

Il giovane indugiò un attimo, ma il vecchio lo pregò in modo così gentile che infine dovette andare con lui. Quando vi furono giunti, il vecchio portò da mangiare per sé e per il giovane, invitandolo a servirsi. Il giovanotto non osò toccare nulla.

«Bora, bora! – Magia, magia!», disse il vecchio, «non ti deve mancare nulla di ciò che abbiamo da offrirti; noi non siamo come gli altri gufihtarak, cioè gli esseri sotterranei, che vivono nelle profondità della terra!»[1]

Così mangiò. Dopo che ebbero mangiato, entrambi i figli del vecchio vollero uscire a pescare.

«Se ne hai voglia, puoi andare a pescare con loro», disse il vecchio.

E così fece il ragazzo. Una volta ritornati dal largo, dovevano portare i pesci al mercato per venderli. Il ragazzo voleva andare con loro, ma il vecchio gli disse:

«È meglio che tu resti qui fino a quando i miei figli avranno fatto ritorno dai loro commerci. Ne riceverai anche tu del ricavato, non temere, non ti mancherà nulla. Non appena i miei figli avranno fatto ritorno, anche tu dovrai ritornare dai tuoi! Cosa vuoi per aver partecipato alla pesca: farina, trinello o soldi?»

«Ah, meglio i soldi», disse il ragazzo. Dopo che entrambi i figli si furono allontanati, il ragazzo fece ritorno al villaggio con il vecchio.

«Se ne hai voglia,» disse il vecchio, «puoi andare a fare un giro in città e guardarti attorno. Ma dovessi vedere qualcosa che non comprendi, non dovrai chiedere a nessun altro se non a me. Più tardi sarò io a spiegartelo.»

Così il ragazzo si allontanò. Dopo aver passeggiato per un po’, scorse un gran numero di capre che si aggiravano sulle piazze e di tanto in tanto annusavano in aria e addentavano qualcosa. Dopodiché vide anche che dalla nebbia che copriva tutto come il tetto di una stanza, pendevano lenze a mano. Ecco una delle capre abboccò a un amo che la sollevò attraverso la nebbia, fino a farla scomparire. Il ragazzo vide tutto ciò e si meravigliò chiedendosi come tutto ciò fosse connesso, ma non disse nulla. Subito dopo vide nuovamente una capra abboccare a un amo e venire trascinata in alto attraverso la nebbia, proprio come la prima.

Trovò ciò così strano e particolare che ritornò dal vecchio per ottenere spiegazioni al riguardo. In quell’istante giunsero anche i due figli che si erano recati al mercato per vendere il pesce e il ragazzo ottenne come ricompensa cento talleri. Dopodiché il vecchio prese con sé il ragazzo nella sua barca e si avviarono sulla via del ritorno.

Durante il viaggio il ragazzo chiese:

«Buon vecchio, ascolta un po’, cosa può voler dire: sulle piazze ho visto capre annusarsi intorno e, prima una, poi un’altra, abboccare alle lenze che pendevano dalla nebbia e venire sollevate in aria».

Così il vecchio iniziò a spiegare:

«Le lenze a mano che hai visto appartengono al tuo popolo e le capre che hai visto sono i suoi pesci; le tue persone si trovano sopra il mare e pescano; lì sopra pescano pesci, proprio come hai visto le capre abboccare alla lenza. Le capre non sono nient’altro che pesci, come vedi, ma qui sotto da noi non hanno questo aspetto. Noi siamo infatti gufitarak del mare e qui si trovano le nostre dimore, i nostri villaggi, qui si svolge la nostra vita e tutto il resto».

Proseguirono per un po’ il viaggio e poi si imbatterono nella medesima fitta nebbia che avevano trovato all’andata; quando ne furono usciti videro nuovamente la spiaggia che il ragazzo ben conosceva. Il vecchio ricondusse il ragazzo al punto in cui lo aveva preso con sé e infine gli disse:

«Non devi dare a tuo fratello dei soldi che hai ottenuto da noi e non devi raccontarlo a nessuno, eccetto a tuo padre!».

Il vecchio non voleva concedere nulla al fratello maggiore, perché era talmente pieno di cattiveria e imprecava sempre: i gufihtarak non riescono infatti a sopportare le persone a cui piace bestemmiare.



[1] Secondo la credenza popolare, colui che mangia del cibo offerto dagli esseri sotterranei, rimane per sempre presso di loro.


Dahl Hans, By the fjord. Wikimedia Commons.


Riferimenti bibliografici

Cocq 2008. Coppélie Cocq, Revoicing Sámi narrative. North Sámi storytelling at the turn of the 20th century. Doctoral dissertation in Sámi studies, Umeå University, Umeå.

Karsten 1955. Rafael Karsten, The religion of the Samek: ancient beliefs and cults of the Scandinavian and Finnish Lapps, Brill, Leiden.

Poestion 1886. J. C. Poestion, Lappländische Märchen, Volkssagen, Räthsel und Sprichwörter. Nach lappländischen, norwegischen und schwedischen Quellen, Druck und Verlag von Carl Berold’s Sohn, Wien.

Taglianetti 2017. Theodor Kittelsen, Troll, a cura di Luca Taglianetti, Vocifuoriscena, Viterbo.