È con entusiasmo che segnaliamo l’uscita dell’ultima fatica del professor Oliviero Canetti, il libro Sardegna Vichinga, recentemente edito nella prestigiosa “Biblioteca Storica” della Laterza.
Il volume è una sintesi della monumentale teoria della «Sardegna Vichinga» costruita dallo stesso Canetti nel corso dei molti anni trascorsi sull’isola, come professore associato di filologia germanica all’Università degli Studi di Cagliari. Pur essendo un testo essenzialmente divulgativo, compilato a partire da una corposa serie di articoli pubblicati nei Quaderni dell’Università tra gli anni Ottanta e Novanta, Sardegna Vichinga è un libro ben argomentato, convincente nei punti fondamentali, forse un po’ azzardato in alcune conclusioni. Come ammette candidamente lo stesso Canetti, la sua ipotesi ha ancora parecchi punti deboli, e richiederà ancora molti approfondimenti e verifiche.
L’idea del libro – che la civiltà vichinga si sia originata in Sardegna – potrebbe sembrare una delle tante fumose provocazioni pseudo-archeologiche destinate a produrre corposi best-sellers (come il famoso Omero nel Baltico di Felice Vinci), ma il professor Canetti procede con il massimo rigore e puntiglio critico, senza lasciare nulla per scontato. Il libro è corredato da un’illuminante introduzione dell’archeologo Giovanni Lilliu, vecchio amico del Canetti.
È complicato riassumere in poche parole un libro di oltre quattrocento pagine. Quello che Canetti sostiene, in sintesi, è che, nei circa ottant’anni di dominio della Sardegna da parte dei Vandali (ca. 457-534), questi abbiano assorbito una parte del substrato culturale sardo, substrato che sarà determinante nel processo di etnogenesi di altri popoli germanici.
I libri di storia affermano che i Vandali fossero di religione ariana e avessero continui contrasti con le diocesi romane stabilite nell’isola. In realtà, sostiene Canetti, i Vandali di Sardegna erano essenzialmente pagani e si erano allontanati dall’impero nordafricano per poter adorare indisturbati i loro dèi (un po’ come avrebbero fatto i norvegesi in Islanda nel X secolo). La pretesa d’autonomia del governatore Goda, proclamatosi sovrano dell’isola nel 533, e la successiva repressione da parte del re Gelimero, andrebbero viste, secondo Canetti, come uno scontro tra arianesimo e paganesimo. Il nome di Goda andrebbe inteso in realtà come góði, sacerdote-sacrificatore della religione germanica.
Con l’inizio del dominio bizantino, nel 534, i Vandali pagani furono costretti a lasciare la Sardegna e, agli ordini dei loro semimitici capi, Saxnôt e Anglôt (a cui si accenna negli scolii al Bellum Vandalicum di Procopio di Cesarea), sbarcarono sul continente, decisi a ritornare alla loro antica terra d’origine. Canetti ricostruisce il percorso di questi Saxones e Anglones, grazie ad alcuni passi del Chronicon Cluniacense, che attesta la loro presenza a Fulda nel 539. In un capitolo della Sárdingar saga, i due capi compaiono con i nomi Sǫksar e Ǫnglar, e il secondo è destinato a cadere nel corso di una battaglia combattuta – con evidente anacronismo – contro i Franchi. Comunque siano andate le cose, i pagani irredenti riuscirono infine a riunirsi ai loro fratelli stanziati sulla costa dano-tedesca, dando origine alle tribù degli Angli e dei Sassoni.
La seconda parte del libro di Canetti insegue molti dei possibili elementi di scambio tra Vandali e Sardi e, a dispetto di quella che Lilliu definiva costante resistenziale sarda, ovvero la caparbia ostilità delle genti autoctone dell’isola a mescolarsi con gli invasori, individua un gran numero di dati linguistici, filologici e antropologici che testimoniano un continuo interscambio tra cultura germanica e cultura sarda.
Ad esempio, giusto per rifarsi alle due tribù citate dagli scolii procopiani, l’etnonimo Saxones, che Canetti interpreta da un sardo satzagoni > sassagoni, «mangioni», così chiamati per via dei loro vivaci festini religiosi (norreno blót, «festino», «sacrificio», cfr. sardo brotzu, «coltello [sacrificale]»), sarebbe non solo alla base del nome dei Sassoni ma anche, ovviamente, dell’odierna città di Sassari, mentre gli Anglones avrebbero lasciato il proprio nome alla regione dell’Anglona.
Secondo Canetti, il nome dell'Asinara sarebbe interpretabile come «altare delle dee» (< *ásinja ara), mentre la regione della Nurra avrebbe preso nome dal dio Njǫrðr (forse una germanizzazione dell’antico dio sardo Norax), il quale sarebbe anche alla base del nome della città di Nuoro.
I frequenti toponimi che iniziano per ol- troverebbero invece la loro radice nella parola germanica *alu-, «birra» (da cui norreno ǫl), luoghi dove il culto agli dèi si risolveva in solenni libagioni di cervogia. Oristano deriverebbe da un norreno ǫlir-staðr, «città degli ubriaconi», in seguito divenuto *ǫristannr, con regolare passaggio [ð] > [nn]. Olbia sarebbe addirittura interpretabile con ǫl-bjǫrr, con giustapposizione di due distinti termini norreni per «birra», ǫl e bjǫrr (cfr. inglese ale e beer). Pure Canetti ritiene che il mirto sia nato in seguito a un goffo tentativo dei pastori sardi di imitare la distillazione del mjǫðr, il famoso «idromele» decantato nelle saghe (a meno che non sia accaduto il contrario: in proposito Canetti confessa un margine di perplessità).
Il nome Barbagia, inutile dirlo, fu dato dai bizantini alla regione in cui si erano asserragliati gli ultimi barbároi vandali prima della loro definitiva partenza dalla Sardegna.
L’isola di Caprera sarebbe stato invece un importante luogo di culto di Þórr, dove caproni e mufloni venivano offerti in sacrificio al dio del tuono. In nota, Canetti cita un vecchio articolo del risorgimentalista Primo De Aprilis, nel quale si diceva che Giuseppe Garibaldi, assiduo spettatore delle rappresentazioni wagneriane, fosse un grande appassionato di epica germanica e portasse sempre con sé un’edizione tascabile del Germanisk Mithologi di Rydberg. La scelta di trascorrere i suoi ultimi giorni a Caprera – come anche quella di esibire una folta barba – sembra documentasse la sua segreta devozione al dio del tuono.
Nelle pagine di Canetti, l’assolata e mediterranea Sardegna assume un forte valore mitogenetico e paradossalmente diviene lo scenario di quelle leggende che secoli dopo il mondo assocerà al gelido nord. L’autore è convinto che molti dati mitologici, divenuti patrimonio comune dei popoli germanici e infine confluiti nelle due Edda, sarebbero nati proprio in Sardegna, allorché i Vandali rilessero le leggende locali alla luce delle loro concezioni religiose.
È probabile, ad esempio, che Óðinn abbia ereditato la lancia dal Pater Sardus, che nelle figurazioni impugna un giavellotto. Allo stesso modo, Canetti interpreta il toponimo Aggius da un norreno/latino *Aug-dius, «dio con l’occhio», e localizza senza esitazioni il vicino nuraghe in cui Óðinn avrebbe lasciato il suo occhio.
Il dio Meili, vagamente ricordato nelle Edda come fratello di Þórr, sembra invece avere pura origine sarda, almeno a giudicare dalla sua diffusione nella toponomastica (avrebbe dato nome a località come Meleu e Meilogu) e persino nell’onomastica (il cognome Melis), sicuro segno di un culto assai vasto e radicato. È significativo che i Vandali, abbandonando l’isola, si lasciarono alle spalle questo dio Meili, che dovevano sentire estraneo alla loro sensibilità.
Le fonti sacre di cui è ricca la Sardegna avrebbero parimenti lasciato una traccia nella cosmologia norrena. Le fonti delle grotte di sa Preione e s'Orku di Siniscola avrebbero ispirato rispettivamente la sorgente della sapienza di Mímir (dal sardo preio(n)- viene infatti la radice norrena frǿð-, «sapienza»: il regolare passaggio [p] > [f] è un ennesimo tributo alla legge di Grimm) e quella del destino a cui presiedono le Nornir (dalla dea sarda Orka sarebbe appunto derivato il nome della norna Urðr).
Analogamente, il fiume Tirso viene interpretato in riferimento a un norreno Týrs-ø, «Isola di Týr», epiteto che, secondo Canetti, poteva essere uno dei nomi sardo-vandali della Sardegna.
Una fortunata intuizione permette a Canetti di spiegare anche il nome del Golfo degli Aranci. Com’è noto, la denominazione fu data per errore dai geografi piemontesi a un originario golfo di sas rancis, dei «granchi». Secondo Canetti, che al riguardo esibisce una interessante documentazione del periodo giudicale, rancis sarebbe una deformazione popolare di un originario ragna, genitivo di reginn, «dèi», e il nome originario del golfo sarebbe dunque ricostruibile in *Ragnavík, «baia degli dèi». Canetti sostiene che in questo splendido golfo sarebbe stata ambientata la battaglia finale tra dèi e giganti, il Ragnarǫk, poi confluita nella Vǫluspá.
Ma oltre alle numerosissime etimologie, l’imponente impianto assertivo di Canetti tocca un gran numero di elementi della cultura sarda, tra cui musica e danze popolari, vestiti tradizionali, e addirittura la cucina, cosa che non ci stupisce, in quanto il professore è notoriamente una buona forchetta. A suo dire, per esempio, il famoso porceddu cucinato tra le pietre arroventate sarebbe da ricollegare all’uso scandinavo del forno campestre o seyðr.
Canetti, pur con un margine di dubbio, interpreta i mamuthones e gli issahadores del carnevale di Mamoiada alla luce delle teorie trifunzionali di Georges Dumézil. Per quanto l’originario mito sardo-vandalo sia andato perduto, esso sarebbe deducibile dai dati del folklore locale, dove gli issahadores rappresenterebbero i membri della prima e seconda funzione (le fruste simboleggiano appunto la sfera del dominio e della forza) e i mamuthones della terza (i campanacci sono un chiaro richiamo alla pastorizia). Per quanto non ci siano dubbi che la prima parte del termine issahadores derivi da un esa-/æsa-, genitivo plurale di áss- (la classe degli dèi di prima e seconda funzione), con regolare metafonia nella vocale radicale (il regolare passaggio [e] > [i] in norreno è probabilmente ispirato alla tenace conservazione della [i] latina in sardo), più arduo è rintracciare l’etimologia della parola mamuthones. In genere la si fa risalire a uno spirito silvestre del folklore sardo, sa Maimoni o sa Mamuthoni. Canetti pensa in realtà a un norreno mann-mútaðr, «uomo che muta», con riferimento ai cicli della natura. A ogni buon conto, le desinenze -ores ed -ones, di origine neolatina, indicano chiaramente l’elemento attivo e quello passivo nei due gruppi di maschere.
L'ipotesi non è nuova, ma Canetti prende recisamente le distanze dalla precedente teoria della studiosa islandese Apríl Fisksdottir, secondo la quale gli issahadores e i mamuthones rispecchierebbero la dicotomia tra elfi luminosi ed elfi scuri.
L’autore suggerisce che la accabadora, la donna che, fino a tempi piuttosto recenti, si recava nelle case per agevolare il trapasso dei moribondi, fosse un residuo dell’uso germanico di farsi «segnare» con la lancia in punto di morte per poter accedere alla Valhǫll. Canetti, giustamente, rimanda il termine al verbo norreno kalla, «chiamare», che al participio femminile dà kallaði. Con prefisso intensivo, su un substrato latino, esso avrebbe dato accallatora, da cui accabadora, «colei che viene chiamata» per por fine alla vita del guerriero. Al riguardo, l’uso reso noto dal recente romanzo di Michele Murgia presenta incredibili legami con un uso documentato per le più antiche popolazioni germaniche (si veda il sacrificio umano in voga presso i Cimbri, dove vecchie streghe tagliavano la gola ai prigionieri di guerra). Secondo Canetti, la figura della accabadora sarebbe anche alla base del racconto snorriano della lotta di Þórr con la vecchia Elli, venuta a dargli il colpo di grazia.
All’importanza nel folklore sardo di streghe e veggenti, le quali avrebbero a loro volta ispirato le vǫlvur germaniche, fa riferimento il nome greco dell’isola, Ἰχνοῦσσα, che venne ben presto re-interpretato in norreno come Ek nú sjá, «che ora io veda».
In appendice, seppure avanzando tra ragionevoli dubbi, Canetti propone una teoria che egli stesso giudica piuttosto azzardata. Il professore ipotizza un ulteriore substrato sotto quello vandalico, questa volta di origine celtica. Gruppi gallici appartenenti alla tribù dei Sardones, come testimoniato da Solino nel Collectanea rerum memorabilium, si sarebbero insediati in Sardegna in epoca romana. Essi avrebbero lasciato tracce nella toponomastica del territorio, dove la Gallura ha presso ovviamente nome dagli stessi Galli e il Logudoro sarebbe stato il territorio sacro al loro dio *Lugos.
Ebbene, sembra siano stati proprio questi gruppi di celti di Sardegna a opporsi all’invasione vandala, intorno al 460. Il nome del loro dux bellorum, il gallo-sardo Arturixe, è nominato in due documenti epigrafici, tra cui il cippo di Gonnostramatza, oggi al Museo archeologico di Cagliari. Secondo Canetti, la disperata resistenza di Arturixe (cfr. sardo arturius, «spirito invitto»), il cui corpo sarebbe stato sepolto nell’isola Cavallo (la «Avalon sarda»), avrebbe ispirato nei Vandali una serie di canti popolari (gli scaldi germanici hanno ben più di un rapporto con i cantadores a ottavas sardi), alcuni dei quali registrati dai folkloristi all’inizio del secolo scorso (si veda la raccolta manoscritta di Grazia Deledda, conservata nella biblioteca di Nuoro). Questo materiale, si doveva essere ormai trasformato in un vero e proprio ciclo leggendario, al tempo in cui Saxones e Anglones salparono dalle coste dano-tedesche verso la Britannia, quasi alla ricerca di una «Nuova Sardegna» in cui ricreare il perduto regno sardo-vandalo. In seguito, Nennio e Goffredo di Monmouth si sarebbero ricordati di Arturixe, allorché crearono i presupposti dell’immortale figura di re Artù.
Lo stesso Canetti mostra, al riguardo, un pizzico di scetticismo, ma un numero rilevante di «coincidenze», troppo vaghe per essere sostenute con il dovuto rigore scientifico (dalla domu de janas che avrebbe ospitato Merlino, fino al San Grail custodito sull’isola della Maddalena) suggerirebbero che il primo archetipo del ciclo arturiano si sarebbe sviluppato appunto in Sardegna.
Ma lasciamo ai lettori il piacere di perdersi nelle pagine di Sardegna Vichinga. Perché il professor Canetti non ci restituisce soltanto alcuni puzzle di uno dei misteri più affascinanti della cultura europea, ma viene a gettare un ponte sullo iato, fino ad ora incolmabile, tra i popoli del mare e i vichinghi. I due più grandi navigatori della storia d’Europa, divisi da tremila anni di storia, trovano ora la loro continuità nella magica terra di Sardegna.
Aprile è il più crudele dei mesi...