lunedì 31 gennaio 2011

Una questione di metodo

Questo post non è necessariamente contro l'ipotesi di Felice Vinci, esemplificata nel suo fortunato libro Omero nel Baltico. È una mia personale riflessione critica su un certo modo di procedere in campi quali l’archeologia, la filologia, il mito e la sua interpretazione.
Diciamo subito, per togliere la questione di torno, che è impossibile dimostrare che cosa significasse effettivamente questo o quel mito. Qualsiasi interpretazione possiamo avanzare su personaggi e fatti leggendari è e rimane soltanto una pura interpretazione. Certamente, possiamo discutere su quale ipotesi sia più o meno valida, quale ci convince di più e quale invece ci sembri poco azzeccata. Al riguardo, possiamo portare indicazioni tratte dalla storia, dalla linguistica, dalla toponomastica, dalla letteratura, dall’archeologia. Possiamo imbastire paralleli e analogie, a patto che siano illuminanti.
Lo studio dei miti è un processo dialettico. È un dialogo in cui appassionati e studiosi si confrontano nel tentativo di avvicinarsi  al punto di vista dei popoli antichi che quei miti crearono e ai quali credettero. Ma non potremmo mai provare, non in modo scientifico, di avere ragione.

Tolta di mezzo questa ingombrante premessa, bisogna però dire che non è tuttavia vero che ogni opinione valga quanto qualsiasi altra e che ogni modo di procedere sia valido quanto qualsiasi altro.
Il problema è che molti autori partono con una tesi precostruita e poi cercano di dimostrarla. Allo scopo, portano un gran numero di «prove» a favore, e vi costruiscono sopra un impianto assertivo, spesso addirittura imponente, nel tentativo di puntellare la loro ipotesi. D’accordo. Ma dov’è il problema?
Il problema è che, procedendo in questo modo, l’autore tende a portare soltanto prove a favore della sua teoria, ignorando quelle contrarie. Egli pesca dalla letteratura quelle argomentazioni che gli fanno comodo, senza curarsi del contesto a cui appartengono e fingendo di non notare le indicazioni a sfavore. Inoltre, molte delle «prove» presentate, sono spesso soltanto degli indizi interpretati a favore dell’autore, il quale si guarda bene dal presentare il rovescio della medaglia.
Ogni interpretazione, infatti, ha anche delle possibilità alternative. Un autore onesto dovrebbe perlomeno citarle e argomentare più o meno così: «Questa è la mia ipotesi. A favore posso presentare gli indizi A e B. Non considero l’indizio C perché debole. Purtroppo la mia ipotesi presenta anche il problema D. E in quanto all’indizio E, mi farebbe comodo interpretarlo in senso E1, ma potrebbe essere anche E2».

Tutte queste cautele mancano totalmente in Felice Vinci ed epigoni. Gli indizi, o supposti tali, vengono solo presentati nel loro aspetto favorevole. Manca totalmente un contraddittorio. E non intendiamo dire che un autore dovrebbe dar voce anche ai suoi detrattori, ma che dovrebbe essere egli stesso il primo detrattore del proprio lavoro.
Farò un esempio, tratto sempre dal lavoro di Felice Vinci. Nel voler dimostrare che i luoghi del mito greco vadano in realtà collocati nelle fredde terre del Baltico, egli pesca nella toponomastica del nord Europa quei nomi che in qualche modo rassomigliano a toponimi ed etnonimi citati nelle fonti elleniche. Egli presenta dunque un numero davvero incredibile di supposte «etimologie», basate però su pure assonanze: non viene presentata alcuna giustificazione filologica, né vengono presentate le possibilità alternative.
Che poi un nome sia antico o moderno, sia finnico, slavo, scandinavo, poco importa, basta che rassomigli sia pur vagamente al nome greco, come se questo dimostrasse un’affinità filologica, peraltro proiettata a un ipotetico passato di quattromila anni fa. E se montagne e fiumi finiscono col trovarsi sempre dove fa comodo a Vinci, è perché Vinci cita soltanto quelle montagne e quei fiumi che gli fanno comodo.
Ora, utilizzando un metodo simile, è facilissimo portare «prove» a sostegno della propria ipotesi. Forse Vinci non si accorge nemmeno di fabbricarsele ad hoc. Il guaio è che non basta il semplice accumulo di «prove» a dimostrazione di un'idea, se nessuna di queste è avanzata in maniera critica. Centinaia di «prove» fasulle non dimostrano una «teoria», ma la rendono altrettanto fasulla.
Vinci, insomma, non agisce come uno studioso, ma come un avvocato. Non cerca di scoprire cosa sia convincente, ma cerca di dimostrare a tutti i costi un'idea che ha per la testa. Non vuole essere probatorio in senso scientifico, ma convincente in senso retorico.
Credo sia un’inutile perdita di tempo smontare le centinaia di «prove» avanzate da Vinci, né mostrare come siano perlopiù delle libere associazioni di idee girate a favore del suo autore. Non sono qui per dimostrare che Vinci abbia torto. Altri lo hanno fatto assai meglio di me. Anzi, per quel che mi riguarda, non ho alcun problema ad ammettere che gli Elleni siano giunti dal Baltico, dall’Ucraina o dall’Anatolia (da qualche parte devono pur essere giunti, visto che costituiscono uno dei rami della diaspora indoeuropea). Soltanto, è il metodo usato dal suo autore a non convincermi.

Certo, a nessuno studioso piace vedere smontata la sua teoria. A tutti piacerebbe vedere dimostrate le proprie ipotesi. Ma guardiamoci negli occhi: cos’è più importante, avere ragione o scoprire la verità?
In una situazione ideale, il peggior nemico di una teoria dovrebbe essere lo stesso studioso che l’ha avanzata. Un’ipotesi non va difesa, come fa strenuamente Felice Vinci, il quale aggiunge nuove sedicenti «prove» a ogni edizione del libro, nel tentativo di rendere il suo impianto sempre più convincente. Un’ipotesi, al contrario, va messa alla prova, attaccata, criticata. E non dai suoi detrattori, ma dal suo autore in primis. È il modo più corretto e onesto per rendersi conto – l’autore per primo – se una teoria regge, se è valida, se ha una minima possibilità di avere un valore di verità.

41 commenti:

  1. Non posso che concordare nelle linee generali. Il tuo discorso non vale solo per Vinci ma per molti altri libri che ingombrano gli scaffali delle librerie, in cui si cerca di dimostrare ipotesi incredibili senza possedere alcuna seria metodologia di ricerca. Vinci, in fondo, è meno peggio di tanti altri, e la sua ipotesi è addirittura intrigante. È un peccato non poterla prendere in considerazione...

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  2. Sono Alberto Majrani, il giornalista scientifico che ha scritto il saggio “Ulisse, Nessuno, Filottete”, che si basa proprio sull’ampliamento, la rielaborazione e la correzione delle teorie espresse da Felice Vinci . Questo articolo sembra scritto da uno che non ha neanche letto ciò di cui parla. E' vero tutto il contrario. Basterebbe scorrere la prima pagina del libro, con la presentazione di Rosa Calzecchi Onesti, per trovare questa frase "che si tratti di ipotesi,per quanto ben fondate, Vinci non lo nasconde". Non mi dilungo oltre; trovate già un'ampia discussione su http://guide.supereva.it/greco/interventi/2008/11... . Buona lettura

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  3. Di Vinci a me è piaciuto molto che alla chiusura del libro dica che (cito a memoria) dopo che un dilettante come lui ha racolto centinaia di indizi a favore della sua teoria, sarebbe desiderabile che gli archeologi faccessero delle ricerche nei luoghi da lui segnalati per confermare o confutare la sua teoria.

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  4. In linea generale posso concordare e un po' mi dispiace perché ho sempre trovato la tesi di Vinci molto affascinante, ma su un punto vorrei dissentire:

    "Il problema è che molti autori partono con una tesi precostruita e poi cercano di dimostrarla in tutti i modi. Allo scopo, portano un gran numero di «prove» a favore, e vi costruiscono sopra un impianto assertivo, spesso addirittura imponente, nel tentativo di puntellare la loro ipotesi."

    Questo si chiama metodo deduttivo. Ed è comunemente adottato da scienziati ed epistemologi come procedimento scientifico funzionante. Venendo meno al principio deduttivo si cade nelle trappole dell'induttivismo, ben esemplificato dalla metafora del tacchino di Bertrand Russell.
    Certamente nella costruzione di un modello si selezionano quegli elementi a favore della conferma della teoria.
    Semmai quello che si potrebbe obiettare nell'ipotesi di Vinci è la mancanza di falsificazione (cfr. Karl Popper). In questi termini quindi potrei concordare con il senso di questo breve articolo.

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  5. Grazie per la vostra attenzione e le vostre risposte, e grazie a Majrani per aver segnalato l'interessante discussione sul blog di Colella. Premetto che a suo tempo ho letto il libro di Vinci con curiosità, anche se in una delle prime edizioni, e l'ho trovato ingegnoso ma del tutto infondato. Ci sono saggi del quale non sottoscriverei una riga ma che apprezzo per la loro fantasia e "Omero nel Baltico" è uno di essi.
    Purtroppo, trattando di miti e letteratura, si lavora solo nel campo delle interpretazioni ed è impossibile essere falsicabili in senso popperiano. Si può solo cercare di essere convincenti.
    Devo ammettere che il buon Vinci rema controcorrente, in quanto la sua ipotesi parte già falsificata in partenza dai dati della linguistica e dell'archeologia. Già per il coraggio, tanto di cappello. Ma proprio per questo dovrebbe portare delle argomentazioni solide.
    Ora, il metodo deduttivo manipola le affermazioni false allo stesso modo di quelle vere. Mille prove, portate a favore, non rendono più solida una teoria, se non sono solide neppure esse. In altre parole, non bastano fiumi e montagne a correlare l'equazione Troia = Toija, se questa non è sorretta dalle più elementari regole della linguistica e della filologia.

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  6. Gentile Majrani, questo post non era polemico nei confronti dell'ipotesi di Vinci, ma nei confronti di una diffusa mancanza di rigore negli studi filologici, specie se condotti da entusiasti appassionati, come lo stesso Vinci. Al contrario di quanto dici, c'è ottimo accordo tra i linguisti sulle regole delle trasformazioni fonologiche, che nel passaggio da una lingua a un'altra tendono ad essere regolarissime. Dici: "La caduta della erre come in troia > toija è una cosa nota in quelle lingue". Invece è esattamente il contrario. Una parola come "Troia", passando in finlandese, avrebbe dato *Roija, e non Toija, conservando la liquida e non l'occlusiva. Ed è un fenomeno ben conosciuto (vedi strand > ranta "spiaggia"; o kristi > risti "croce"). Se Vinci pretende che la cittadina finnica di Toija derivi il nome dalla Troia omerica, dovrebbe rilevare l'esistenza del problema fonologico e tenerne conto ai fini della validità della sua ipotesi. Ma non lo fa mai. Tutte le centinaia di "prove" che riempiono i suoi libri sono presentate senza alcuna analisi critica sul loro grado di attendibilità. In questo modo egli mette in piedi un castello imponente, ma senza le minime basi.

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  7. Come ho già scritto nel sito di Benedetta Colella (che tra l'altro è grecista e filologa specializzata in paleografia greca), le obiezioni non mettono in crisi la parte fondamentale della teoria, che cioè i poemi omerici siano delle saghe nordiche giunte in Grecia lungo la via dell’ambra. Lo stesso Vinci afferma più volte che le coincidenze dei nomi, che sono tantissime, vanno considerate con molta cautela. Inoltre le regole filologiche mi sembrano una cosa molto poco concreta, create a posteriori in base a varie elucubrazioni. Chi può dire che lingua si parlasse nel Baltico 3000 anni fa, visto che per mille e più anni non si è scritto niente? E poi le regole non hanno ogni tanto delle eccezioni? Specialmente delle parole, che vengono continuamente storpiate in mille modi da migliaia di persone diverse?

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  8. Il problema delle origini dell'epica greca mi affascina da sempre e sono conscio delle molte similitudini tra miti greci, germanici, celtici e indoiranici. È un campo di studi che risale alle origini stesse dell'indoeuropeistica come scienza e ha ormai raggiunto una certa raffinatezza. Nessuno nega che non vi siano stati rapporti lungo la via dell'ambra, o che Hermes e Odino siano in pratica lo stesso personaggio con vesti appena diverse. Non ho nessun preconcetto "classicofilo", credimi, e sono perfettamente convinto che tali similitudini si spieghino tramite diffusione e migrazioni. In questo, i dati dei genetisti collimano assai bene con quello dei linguisti (dà un'occhiata a "Storia e geografia dei geni umani" di L.L. Cavalli-Sforza).
    Vedi, le eccezioni, in linguistica, esistono, certamente, e i filologi si sforzano di spiegarle una ad una. Potrei farti degli esempi, ma non voglio essere troppo didascalico. Ti assicuro che è un campo di studi assai più rigoroso e preciso di quanto non sembri ai profani, e che fa sovente uso di strumenti matematici.
    Ma un lavoro come quello di Vinci, almeno dal punto di vista etimologico, si basa quasi unicamente sulle eccezioni. La mia polemica, più che sull'idea in sé, è sul metodo utilizzato.
    Diffido di quegli studiosi che non mettono alla prova le loro ipotesi, non le criticano e non cercano spiegazioni alternative. Bisogna convincere sé stessi prima degli altri. Non c'è niente di più deludente che lasciarsi affascinare da una bella idea e scoprire, poi, di non poterle dare credito.

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  9. le spiegazioni alternative esistono da 3000 anni, e non è che funzionino molto bene! Non so quale edizione tu abbia letto, ma Felice mette continuamente a confronto la spiegazione "classica" con quella alternativa. E sono anni che chiede di potersi confrontare con i suoi detrattori. Ben poche volte questi sapientoni hanno accettato il confronto. E però continuano solo a dire che la questione omerica è irrisolvibile! (PS conosco bene i libri di Cavalli Sforza, avendoli citati nel mio libro)

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  10. Possiedo la seconda ristampa, del 2000, che già soprattutto nella parte finale è un minestrone di libere associazioni dove tutto viene messo in correlazione con tutto. Mi auguro che nelle edizioni successive Vinci abbia curato un po' di più il suo impianto assertivo.
    La mia impressione è che Vinci abbia voluto scrivere una sua personale versione del Mulino di Amleto, libro che cita a ogni pié sospinto. D'accordo, il Mulino è un libro bellissimo, che personalmente adoro, ma è anch'esso da prendere con le molle. In verità mi faccio un serio esame di coscienza prima di prendere per buona una sola delle affermazioni in esso contenute.
    Sono ipercritico? Sì.
    E in ogni caso, De Santillana e la Von Dechend non pretendono mai di convincere il lettore, anzi, lo stimolano a portare avanti una seria analisi critica. Non si incaponiscono di dimostrare ciò che, per sua natura, non può essere dimostrato.
    Se la questione omerica è, com'è di fatto, irrisolvibile, non mi sembra che Vinci migliori molto le cose rispolverando la vecchia ipotesi pseudo-esoterica di Tilak. Una cura peggiore del male.
    Temo che Vinci dovrà aspettare per ottenere un confronto serio con i suoi detrattori, e non perché la sua teoria non sia degna di interesse, ma perché è presentata come fosse un libro di Sitchin o di Hancock.

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  11. Che bello! Mi piacciono queste discussioni colte, appassionate, ma in fondo rispettose, che non scadono mai nella polemica fine a sé stessa!
    Il piacere di frequentare il blog di Bifröst...

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  12. Non so se c'entra... Sono andato a guardare la scheda su Felice Vinci nella Wiki finlandese. E' molto breve e si conclude con questa nota:

    "Vincin teoria ei ole saanut lainkaan kannatusta suomalaisten tutkijoiden keskuudessa. Helsingin yliopiston Suomalais-ugrilaisen laitoksen tutkija Santeri Junttila on maininnut Vincin nimistötutkimukset esimerkkinä näennäistieteestä. Erkki Urpilaisen mukaan Vincin teoria perustuu Homeroksen runoissa mainittujen ja Suomen alueella esiintyvien paikannimien satunnaiseen samankaltaisuuteen."

    "La teoria di Vinci non ha ricevuto alcun credito da parte degli studiosi finlandesi. Il prof. Santeri Junttila, facoltà di Ugrofinnistica dell'Università di Helsinki, ha dichiarato la teoria di Vinci un esempio di pseudoscienza. Secondo Erkki Urpilaisen, Vinci si è basato su una somiglianza assolutamente casuale tra i toponimi presenti nei poemi di Omero e quelli rilevati sul territorio finlandese."

    (http://fi.wikipedia.org/wiki/Felice_Vinci).

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  13. a volte mi chiedo se i critici di Vinci abbiano mai letto il suo libro. Avendo incontrato certi sapientoni nostrani mi convinco sempre di più che la risposta sia no. E se l'hanno letto, non l'hanno capito, visto che parlano solo dei toponimi e non di tutto il resto. E per quello che ne so, il libro non è ancora uscito in edizione finlandese. Spesso mi trovo a dover pensare che l'unico che è riuscito a farne una critica seria sia io (io che, peraltro, sono in gran parte favorevole alle sue idee) Per gli interessati, le discussioni continuano nei siti citati più sopra

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  14. Immagino che la faccenda dei toponimi sia la più vistosa, anche se è una spia allarmante della mancanza di metodo. In ogni caso, fossi in Vinci, partirei dal presupposto che i suoi critici sappiano di cosa stanno parlando. Il problema è esposto con rassegnata simpatia in questa breve e onesta recensione nel blog di L'Emmerdeur. http://leemmerdeur.blogspot.com/2010/02/considera...

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  15. avevo già visto il testo di emmerdeur (bel nome!) anche perché cita pure il mio libro. Ho dato una risposta ...pepata, chissà se la pubblicheranno...

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  16. Anche a me non sembra che Emmerdeur abbia parlato male dell'ipotesi di Vinci, ma sia rimasto perplesso (come me del resto) per il modo spesso facilone com'è presentata. Guarda, in Omero nel Baltico ci sono idee assolutamente deliziose. Il lavoro di comparazione tra Ullr e Odisseo, ad esempio, contiene delle splendide intuizioni. Solo che Vinci stenta a mantenere il filo: sbanda in continuazione a destra e a manca, senza il minimo rigore espositivo. Dò ragione anch'io all'Emmerdeur, quando scrive: "Davvero è triste leggere le tante cose buone sparse in questo ponderoso libro e, nel frattempo, ogni poche pagine voltate, incorrere in vistose incongruenze, inette parentesi, esagerate, intricate ed aeree congetture".

    PS. L'Emmerdeur è il titolo di un film francese di Édouard Molinaro, tradotto in italiano con Il rompiballe. Billy Wilder ne ha fatto un deliziosissimo remake con Walter Matthau e Jack Lemmon, Buddy Buddy...

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  17. Il libro di Vinci è un lavoro talmente complesso e articolato che non si può pensare di giudicarlo dopo averlo "letto". Bisogna rileggerlo più volte, andando a esaminare le varie affermazioni con pazienza. Avendolo fatto in questi dieci anni posso dire che gran parte delle affermazioni in esso contenute sono ben motivate. Certo, in alcuni casi ci sono degli errori e delle interpretazioni alternative più convincenti, cosa che ho provveduto a elencare nel mio libro. Del resto lui è disponibilissimo a discutere con tutti, non chiede di meglio, basta contattarlo

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  18. l'isola di Lyo non è sicuramente Itaca, basta guardarla è palese. Nessuna tempesta riscirebbe mai a spingere una "nave achea" fuori dal Mar Baltico attraverso i bassifoni e gli stretti canali delle isole danesi. Invito il dott. Vinci a percorrere in barca il tragitto dalla Finlandia al mare del nord. Dovrà riscrivere quasi tutta l'impostazione "geografica" dei percorsi di Ulisse.
    Senza riscontri archeologici è da ritrattare l'80% della tesi.
    Questo non toglie nulla alla tesi che gli achei del baltico siano trasmigrati attraverso le vie dell'ambra nel mediterraneo portando con sè saghe,miti,nomi di dei,di siti o di citta.
    Paolo Conte

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  19. Con Vinci ho avuto, in passato, una breve ma interessante corrispondenza epistolare. Ho mancato di conoscerlo personalmente perché non sono potuto andare alla conferenza organizzata dalla rivista Hera, nonostante i ripetuti inviti. Vinci è effettivamente persona molto cortese, e il suo libro è una miniera di spunti... anche se trovo il suo metodo piuttosto inaffidabile.
    Questo purtroppo spinge molti critici a buttare il bambino insieme all'acqua calda, ed è un peccato.

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  20. acqua sporca...non calda...! Comunque è chiaro (lo dice anche Vinci) che la parte centrale dell'Odissea, con il fantasioso viaggio di Ulisse, è un espediente narrativo per giustificare la lunga assenza del Re di Itaca. Leggetevi il riassunto del mio libro su www.filottete.it e capirete il perché

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  21. Per Majrani: Hai ragione, acqua sporca, anche se ancora bollente, eheheh... La cosa curiosa è che il tuo lavoro si basi dal presupposto che Odisseo sia effettivamente esistito, anche se si tratta di un tale che con il protagonista dell'Odissea non ha proprio nulla a che vedere... Ma prima di esprimere un'opinione aspetto di leggere il tuo libro.
    Per Conte: Non so dirti nulla riguardo l'isola di Lyo. Se vuoi entrare in dettagli...

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  22. I miti non nascono dal nulla, ma da avvenimenti reali poi trasfigurati dalle interpretazioni e dai continui passaparola successivi: il difficile è riuscire a risalire alle vicende e alle collocazioni originarie. Come ho già scritto in altri siti, il bello del mio libro (e in parte di quello di Vinci) è che finalmente si riesce a far concordare tutti gli indizi di tipo archeologico, climatico, antropologico, linguistico, topografico, mitologico, astronomico e… gastronomico!

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  23. Come nascano i miti è questione complessa. Personalmente sono assai poco persuaso dell'utilità di "ipotizzare" delle basi storiche a delle epopee che rieccheggiano a noi da un'antichità tanto remota. Abbiamo l'Odissea, con tutti i suoi problemi testuali, ma temo che non avremo mai la certezza di un Ulisse, né in Grecia né nel Baltico.
    Per dirle con altre parole - e credo che sarai d'accordo - Schliemann ha trovato delle rovine, non ha dimostrato la guerra di Troia.

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  24. Su Schliemann siamo d'accordo. Ma non perché non abbia trovato delle rovine, ma perché le rovine che ha trovato non dimostrano niente: non c'è quello che dovrebbe esserci e c'è quello che non dovrebbe esserci! Nella storia dell'archeologia molte scoperte sono state fatte basandosi su testimonianze che due secoli fa erano considerati nient'altro che miti, senza riscontro con la realtà. E' solo con i racconti omerici e con la mitologia greca che sembra non si sappia che pesci pigliare. Ma forse è così perché si pesca nel mare sbagliato! E tanto per farti un esempio che ho descritto io nel mio libro e che è piaciuto moltissimo a Giulio Giorello, che mi ha scritto la prefazione, dove io dico che c'erano le colonne d'Ercole, le colonne ci sono veramente! E sono proprio al limite del mondo conosciuto, di fronte al "fiume oceano", in un luogo dove c'era pure il mito di Ercole.... solo un caso?

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  25. Esatto! Mica c'era il nome di Agamennone sulla maschera funebre che Schliemann (non so quanto seriamente) pretendeva di attribuirgli. Riguardo a Giorello, sarei curioso di leggere la sua introduzione. Il nostro dibattere, in effetti, riguarda un po' anche la filosofia della scienza, in quanto stiamo discutendo il valore di certezza che si può dare al mito e a certe sue interpretazioni. E per quanto riguarda il tuo lavoro su Ercole (che mi interessa) attenderò anche qui di leggere il tuo libro.

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  26. Non dimentichiamo le relazioni tra Odisseo e Ull, che Vinci esamina una a una. Quando ho letto quella parte di Omero nel Baltico mi sono illuminata! Poi rileggendolo ho un pò preso le distanze... Alcune similitudini le trovo piuttosto interessanti, altre non riesco a valutarle..... Non sarebbe mai leggere un piccolo post al riguardo.....

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  27. Trovo singolare l'utilizzo ricorrente del termine "sapientoni", in un senso chiaramente dispregiativo, da parte del sig. Majrani, che sul suo sito sembra invece affannarsi nel trovare riscontri alle sue strampalate teorie da parte di filologi compiacenti.
    Apprezzo molto invece la calma con cui i redattori di questo ottimo blog reagiscono alle farneticazioni di simili ciarlatani.
    L'utilizzo della mitologia al fine di vendere libri è un fenomeno tipicamente moderno, parecchio triste, e per come la vedo io, abbastanza pericoloso.
    Parlare a sproposito di questioni tanto serie può infatti costituire un buon precedente nel sentirsi autorizzati a lanciarsi in elucubrazioni ben più sinistre di queste cretinate toponomastiche.
    L'aberrante utilizzo della categoria "mito" da parte di fanatici estremisti mi sembra un ottimo esempio in questo senso: si tratta di un fenomeno in costante evoluzione, e per rendersene conto basta dare un'occhiata al web.
    Non credo ci sia bisogno di rievocare la Germania hitleriana per porre l'accento su quanto un atteggiamento di estrema superficialità rispetto a certi argomenti porti spesso a conseguenze catastrofiche.
    Detto ciò, consiglierei al sig. Majrani un'urgente lettura di alcuni classici in materia di origine di miti, roba tipo Dumèzil, Kerenyi, Jesi, Levi Strauss etc.. tutto materiale che (voglio sperare, dato il livello delle sue argomentazioni) egli sembra ignorare pressoché del tutto.
    Concludo porgendo i miei più vivi complimenti a tutta la redazione di Bifröst per l'immane lavoro di cui si stanno facendo carico, a totale beneficio di noi comuni mortali :)
    Cordiali saluti.

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  28. Il signor FD si legga il mio libro e si renderà conto di dovermi delle scuse. E molto profonde. Le farneticazioni dei ciarlatani appartengono ad altre categorie di persone

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  29. Purtroppo, la mitologia, come studio di argomenti "tradizionali", è spesso campo d'azione di frange nazionaliste, quasi sempre di destra, che ne fanno strumento per sostenere le loro ideologie. Non è un segreto come, soprattutto negli ultimi anni, nazionalismi e paganesimi vadano spesso a braccetto, e gruppuscoli di tutte le risme cerchino di far tornare in auge antichi "valori", sentiti più genuini di altri. Si passa da simpatici gruppi di rievocazione storica a veri e propri movimenti politici, fortemente ideologizzati e, a volte, apertamente razzisti.
    Ora, escludo fermamente che i signori Vinci e Majrani possano essere accomunati a simile gentaglia. Essi sostengono un'ipotesi e lo fanno con i mezzi lecitissimi del dialogo e del confronto. Ho avuto modo di parlare con entrambi e sono persone intelligenti, ironiche e gradevolissime.
    La mia perplessità, in questo post, riguardava unicamente il metodo da essi usato, che rassomiglia a volte più a un sostegno ideologico ("ecco perché dovete darmi ragione") che a un'analisi scientifica ("mettete alla prova la nostra teoria e vediamo se regge").
    Quando leggo delle pagine di Dumézil, l'assoluta attenzione con cui espone i dati, li analizza criticamente, espone tutte le interpretazioni possibili, sia a favore che contro, e soprattutto quando si tira indietro, perché un dato non è analizzabile con un ragionevole grado di verosimiglianza, mi viene voglia di alzarmi in piedi per fargli un applauso a scena aperta. Spesso non sono nemmeno d'accordo con le sue conclusioni, ma il suo metodo è trasparentissimo, e soprattutto aperto alla critica degli altri studiosi.
    In Vinci, ahimé, trovo solo "prove" fumose, uno stile confuso e la pretesa di aver ragione. Non c'è nessuna apertura verso le critiche degli studiosi, perché tutto l'impianto è demolibile con facilità vergognosa. Il pubblico che l'autore cerca di convincere non è quello specialistico, ma quello di bocca buona che segue "Voyager" o legge "Hera".
    Perciò colloco "Omero nel Baltico" accanto ai libri di Alford, Sitchin e Giacobbo. E non vicino a Dumézil, Kerényi e Lévi-Strauss.

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  30. Non posso che ripetere quanto già detto: le spiegazioni alternative esistono da 3000 anni, e non è che funzionino molto bene! Felice mette continuamente a confronto la spiegazione "classica" con quella alternativa. Per ben 700 pagine; avrebbe dovuto forse ricopiare tutti i libri che sono stati scritti sulla questione omerica per criticarli tutti punto per punto? E sono anni che chiede di potersi confrontare con i suoi detrattori. Ben poche volte essi hanno accettato il confronto, limitandosi a insultare in modo arrogante e sprezzante. E però continuano solo a dire che la questione omerica è irrisolvibile!

    La teoria di Felice Vinci ha avuto una certa diffusione da parte dei mezzi di informazione, ma gode [forse dovrebbero dire ha goduto] di scarsa considerazione da parte del mondo accademico. Da notare, però, il giudizio altamente positivo dato al suo lavoro, dalla nota grecista e latinista italiana Rosa Calzecchi Onesti, che nella presentazione del libro invita la comunità archeologica a compiere accurata opera di verifica, sul campo. Il libro è stato tradotto in inglese, russo, svedese ed estone . Nel 2007 si è tenuto un convegno internazionale a Toija (Finlandia), a cui hanno partecipato, oltre a Felice Vinci, William Mullen, Professor of Classics, Department of Classics, Bard College, Annandale-on-Hudson, USA; Ilze Rumniece, Head of the Centre for Hellenic Studies, Department of Classical Philology, University of Latvia, Riga, Latvia; Piero Boitani, Professore di Letterature comparate, Dipartimento di Lingue, Letterature Comparate e Culture Moderne, Università "La Sapienza", Roma; Alessandra Giumlia-Mair, Archeologa AGM Archeoanalisi, Merano; Giacomo Tripodi, Professore di Botanica, Dipartimento di Scienze della Vita "Marcello Malpighi", Università di Messina. Una relazione sul convegno è uscita nel 2009 a cura dello stesso professor Tripodi. Nel 2008 è uscito il saggio del giornalista scientifico Alberto Majrani Ulisse Nessuno Filottete, che riprende, ampliandole e correggendole, alcune parti della teoria di Felice Vinci. Nel 2009 sono usciti due ampi articoli sulle riviste scientifiche e filosofiche Limes e Prometeo. Nel 2010 il saggio del filologo e filosofo della scienza Mario Geymonat e di Giampiero Mele “Fili d’Ambra – il Rinascimento del Baltico” dedica un intero capitolo alla teoria di Felice Vinci. Diversi altri libri (saggi e romanzi) hanno preso spunto dalla teoria e la citano nella bibliografia." Quanto alla mia, essendo appena uscita, ovviamente ancora in pochi la conoscono, comunque su www.filottete.it puoi leggere tutte le recensioni e in particolare quelle della filologa e grecista Benedetta Colella; ti segnalo inoltre che il mio libro è stato finalista al premio Cesare de Lollis, dedicato al noto filologo abruzzese. Inoltre ha la prefazione del maggior filosofo della scienza italiano ed è stato apprezzato da tutti i membri dell'unione dei giornalisti scientifici italiani (UGIS) , di cui faccio parte. Vogliamo dire che anche tutti questi sono dei ciarlatani o dei babbei?

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  31. Carissimo, la questione omerica è irrisolvibile semplicemente perché lo iato tra mito e archeologia non è fisicalmente colmabile. E non si tratta di una questione di dati, ma di una questione di ambiti. Le rovine scoperte da Schliemann sono solo delle rovine. Viceversa, la città di Troia è un locus letterario nei poemi omerici. Che le une sembrino più o meno trovarsi nel luogo indicato dal poeta per la città epica, potrebbe anche essere una semplice coincidenza. Nessun archeologo serio ti dirà che quel sito archeologico corrisponda alla Troia omerica. A meno di non trovare, prima o poi, una iscrizione in cuneiformi ittiti o Lineare B con la scritta "TROIA", resterà lo iato tra archeologia e mito. E anche se lo trovassimo, non per questo si renderebbe automaticamente "vero" tutto il poema omerico. Così come l'esistenza di Micene non comprende automaticamente quella di Agamennone (o di Roma quella di Romolo).
    Così, anche se si trovassero resti archeologici di qualche antica civilizzazione in Finlandia, questi non renderebbero più "veri" i poemi omerici di quanto non facciano i presunti siti di Troia o Micene nel Mar Egeo. Con la differenza, che almeno questi ultimi si trovano dove una tradizione millenaria li ha sempre posti.
    Quindi, non è che se la questione omerica ha dei buchi, Vinci la risolve. Anzi, la costruzione di Vinci, non solo ha buchi ancora più grossi, ma è basata su un coacervo di "prove" assolutamente capziose, quando non di un'ingenuità disarmante (le famose etimologie). Il metodo di Vinci soffre inoltre di un grosso effetto selezione: le "prove" sono appositamente scelte per ottenere i risultati prefissi. Non mi stupisco se le autorità accademiche lo abbiano perlopiù ignorato: è impossibile prenderlo sul serio.
    Quando io l'ho letto, tempo fa, non sapevo nulla della diatriba che c'era dietro: lo comprai a una libreria universitaria credendo fosse un libro serio. Mi sono accorto della sua inconsistenza soltanto leggendo come cercava di convincermi con argomenti costruiti ad hoc.
    Te ne faccio un piccolo esempio nel post sotto...
    Che poi il libro goda di simpatie da parte della Calzecchi Onesti (la cui autorità di grecista è indiscussa), o di chicchessia, non la rende meno inattaccabile. Il "principio di autorità" conta poco nella scienza.

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  32. comincio dalla fine: dici che Il “principio di autorità” conta poco nella scienza. Davvero? Cioè una teoria scientifica ottiene lo stesso ascolto e ha le stesse probabilità di successo sia che venga approvata da un premio nobel, sia che sia propugnata dalla donna delle pulizie? E naturalmente ha le stesse probabilità che sia vera? Chi è che pecca di ingenuità disarmante?

    Dici che le etimologie sono costruite. E che dire, solo per fare un esempio, di località omeriche come Scandia, Calidone, Temese, che ricordano gli antichi nomi della Scandinavia, della Caledonia, del Tamigi? Senza bisogno nemmeno di cambiare una lettera?

    Lo ripeto: i miti non nascono dal nulla. Difficile è trovare da dove nascono. Tanti miti di popoli diversi riguardano per esempio il sole e la luna; molti si assomigliano a distanza di migliaia di chilometri. Ma il sole e la luna esistono veramente! E così tanti fenomeni naturali, che prima della nascita del pensiero scientifico moderno erano oggetto di spiegazioni fantasiose. Ma fino all'inizio dell'ottocento, prima delle grandi scoperte archeologiche in Egitto, Siria, Persia, Grecia eccetera, molte gesta di eroi e di re erano considerati solo dei miti senza riscontri nella realtà. Solo per i poemi omerici esiste ancor oggi questo cortocircuito: centinaia di nomi, luoghi, eventi senza nessun riscontro, se non ricorrendo a spiegazioni arzigogolate e a continue forzature. Non sarà magari che i critici non sanno che pesci pigliare, solo perché si ostinano a voler pescare nel mare sbagliato?

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  33. Carissimo, intanto bentornato su questi lidi.
    Per "principio di autorità" intendo un argomento sul tipo "lo dice anche...". Un'ipotesi non diviene vera perché quel Tale è d'accordo, però possiamo considerarla verosimile quando resiste a tutte le obiezioni e mette d'accordo buona parte della comunità scientifica. Ho il massimo rispetto per la Calzecchi Onesti, ma non è che perché Vinci ha convinto lei sul suo terreno che deve convincere anche me sul mio. Il fatto che io sia d'accordo o meno, conta poco, ai fini della veridicità dell'ipotesi...

    Le etimologie, ahimé. Qui siamo un po' più nel mio campo. Vi sono montagne di parole corradicali tra greco, latino, celtico e germanico, e le regole fonologiche sono di una precisione e di una regolarità sconcertanti. Ad esempio, dove in latino e greco trovi [p], in germanico trovi [f]: pater/father; piscis/fish; dove in latino e greco trovi [k], in germanico trovi [h]: caput/head; centum/hundred (ho fatto pochi esempi su centinaia: le leggi di Werner e di Grimm sono da quasi due secoli una delle basi portanti dell'indoeuropeistica). Così, dove in greco trovi [h] in latino trovi [s]: helios/sol; hepta/septem. Le tavole delle relazioni fonologiche tra tutte le lingue indoeuropee sono fittissime di relazioni. E sono relazioni regolari: laddove la regola viene meno, l'eccezione è solitamente spiegabile.
    Vinci mette insieme nomi antichi e moderni, greci, germanici e finnici, senza tener conto delle lezioni, della fonologia, dell'evoluzione delle lingue; non fornisce regole di alcun tipo. Sarebbe come associare l'inglese fish con il francese fiches, e pretendere che una volta si usassero i pesci come gettoni da gioco.
    Sulle tre "etimologie" che mi hai portato si potrebbe parlare a lungo. E anche se uno o l'altro dei nomi fossero davvero corradicali, quale avrebbe influenzato quale? Ci sono termini geografici corradicali dall'Irlanda all'India... Ad esempio, in Europa, abbiamo almeno tre popolazioni che rispondono al nome di "Veneti"... gli antichi abitanti indoeuropei dell'odierno nord-est italiano, una tribù celtica della Bretagna, e una popolazione slava occidentale (e senza parlare dei Wendi del Baltico). E i linguisti ci assicurano vi sia alla base una radice comune.

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  34. Continuo qui. Quando parliamo di popolazioni indoeuropee, non serve nemmeno un contatto diretto, perché i termini possono essere stati ereditati dalla preistoria.
    Parole come "cane" o "lupo" derivano da radici comuni in una quantità di lingue strabiliante, dall'India all'Irlanda, dal Mediterraneo alla Russia. Ciò vuol dire sia che queste lingue hanno un'origine comune, sia che i suoi proto-parlanti conoscevano il cane e il lupo.
    La parola per "gatto" è diversa da lingua a lingua. Dunque, i proto-indoeuropei hanno conosciuto il gatto solo molto tempo dopo la loro dispersione.
    Tramite il confronto tra parole comuni alle lingue indoeuropee e innovazioni, gli studiosi si sono fatti un'idea di dove abitassero i proto-indoeuropei. Essi conoscevano il faggio e la quercia (radici comuni), ma non il pino (espresso da parole diverse nei vari esiti linguistici). Conoscevano il cavallo, la pecora e il maiale (radici comuni), ma non la renna. Avevano un'organizzazione familiare, sociale e religiosa strutturata in un certo modo (comune a Germani e Greci, ma sconosciuta ai Finni).
    Si deduce che l'Ur-Heimat indoeuropea fosse da qualche parte tra l'Ucraina e l'Europa centro-orientale. Comunque in luoghi ben lontani dal Baltico o dal mare in generale (la parola per "mare" è diversa in greco, italico, germanico, etc.; la parola per "acqua" invece no, ovvio).

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  35. Ok, Vinci può aver sbagliato ad usare il termine "indoeuropei"; io infatti ho sempre usato più prudentemente il termine generico "nordici". Aspetto ora però che mi spieghi in basi a quali regole fonetiche Bisanzio è diventato Costantinopoli e poi Istanbul....
    Le località non seguono pedissequamente le regole di fonetica, specialmente in luoghi che hanno visto il passaggio di un bel po' di invasori, distruttori e deportatori. Il tutto per migliaia di anni senza che nessuno mettesse niente per iscritto.
    Come ho detto nel mio libro , dopo aver passato alcuni anni a “far le pulci” alla sua teoria, ritengo di avere individuato alcuni errori, alcuni veniali, altri più importanti. Devo dire che l’impianto generale vinciano è comunque più che realistico, e le obiezioni non intaccano la validità dell’assunto, che cioè i racconti omerici siano delle saghe nordiche trasportate in Grecia in epoca antica. Alcuni detrattori hanno voluto far credere che il suo lavoro fosse solo un mero elenco di località che presentano vaghe assonanze con i nomi geografici omerici: come abbiamo visto, e come ripete più volte Vinci stesso, questo rappresenta solo una parte della infinità quantità di dati che finiscono per concordare. E se anche questa fosse solo una incredibile serie di coincidenze, se cioè fosse l’evento di un caso, oppure, perché no, la risultanza di altre trasposizioni di nomi avvenute in altra epoca, resterebbero comunque validi tutti gli indizi di tipo archeologico, climatico, antropologico, linguistico, topografico, mitologico, astronomico e… gastronomico.

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  36. Un piccolo esempio. Non significativo ai fini della tesi, ma indicativo del modo di procedere di Vinci.
    A un certo punto egli sostiene (soffiando l'idea a Guénon) una relazione tra alcuni nomi mitologici: Mínos, Menes, Mannus, Manu e Maui. Non offre alcun appiglio, né alcuna giustificazione, butta là l'evidente rassomiglianza dei nomi con nonchalance, non capisco a quale fine. Ora, però, se vai a esaminare la cosa, ti rendi conto che qualcosina di buono nel discorso c'è.
    Ad esempio il tacitiano Mannus e l'indiano Manu sono probabilmente corradicali, visto che entrambi derivano dalla radice indouropea per "uomo": sono gli eponimi dell'umanità, e possiamo forse parlare di un mito comune, per quanto Tacito non dia molti dettagli al riguardo e l'ipotesi rimanga soltanto a livello etimologico.
    Mínos? Qui è più difficile sostenere un'etimologia comune, ma è un mitico legislatore, come il Menes egizio. Possiamo parlare, se non di una omologia, di un'analogia, più o meno vaga.
    Ma quel polinesiano Maui cosa c'entra? Viene infilato nel calderone solo perché inizia per "M", senza alcuna ragione o necessità. E rovina anche la parte sensata dell'ipotesi.

    Io non mi sono mai opposto all'idea di Vinci, che a quanto ne so potrebbe anche essere corretta, ma al suo modo di procedere, che rassomiglia più a un reportage di Voyager che a un saggio scientifico. Se eliminasse dal suo libro il 90% di etimologie prive di costrutto, di divagazioni prive riscontro e di palesi cavolate, la sua tesi ne uscirebbe rafforzata.

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  37. "Gentilissimo Ingegner Vinci, ho letto con interesse il suo libro; molte delle tesi che lei espone sono degne di attenzione e approfondimento. Devo tuttavia dissentire da parecchi dei riferimenti linguistici che lei usa. Che ne dice di venirmi a trovare nel mio ufficio che ne parliamo?" Questa è la lettera che i linguisti NON hanno mai scritto a Vinci. Al contrario le loro reazioni sono sempre state: "Come si permette costui di scrivere queste cose? Ma fatelo tacere, perdindirindina! Noi abbiamo cose più importanti a cui pensare!". E allora, di chi è la colpa?

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  38. Tu sei un naturalista, Alberto, come me. Un giorno un filosofo scrive un libro dove afferma - e non per metafora - che i delfini sono dei pesci perché rassomigliano agli squali. I biologi, com'è ovvio, lo guardano con un misto di incredulità. Come si può obbiettare criticamente a una "teoria" simile, che riporterebbe la biologia al medioevo? O ti aspetti che la comunità dei biologi gli scriva una lettera dicendogli: "Venga a trovarci in facoltà, così le spieghiamo cosa distingue un mammifero da un pesce". Le etimologie di Vinci sono di una ingenuità disarmante; linguisticamente parlando, confonde davvero mammiferi e pesci, e salta a pie' pari un'intera disciplina come se non esistesse. Se Vinci avesse presentato una teoria linguistica, la si potrebbe confutare. Ma non c'è alcuna teoria.
    Guarda, qui in Etruria scappa fuori ogni tanto qualcuno che sostiene di aver scoperto da dove vengono gli Etruschi. Nel corso degli anni ho visto uscire libri di illustri dilettanti che sostenevano di aver trovato relazioni con l'albanese, il lidio, il caucasico, il sardo, l'ungherese e il maya, presentando lunghe liste di parole simili per suono e significato tra l'etrusco e queste lingue.
    Il metodo usato è associare parole che si scrivono, si pronunciano o sembrano simili. Nessun linguista prenderebbe mai in considerazione un lavoro simile. Non basta associare liste di parole simili tra due lingue A e B: bisogna trovare delle regole fonologiche e grammaticali che permettano, in certa misura, di prevedere come si dice una parola nella lingua A conoscendo la stessa parola nella lingua B.
    Comunque mi sto solo riferendo alle etimologie: nel lavoro di Vinci c'è del buono, non deve rovinarlo con ingenuità dilettantesche.

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  39. Appunto, se nel lavoro di Vinci c'è del buono, gli addetti ai lavori dovrebbero preoccuparsi di scrivere la famosa letterina per spiegare cosa c'è di buono e cosa no.
    Mi fai l'esempio del delfino: ma noi del delfino possiamo conoscere l'anatomia perché ce l'abbiamo qui, ma se possedessimo solo qualche osso fossile tutto sarebbe molto più difficile.
    Così come possiamo riconoscere le impronte di un dinosauro su una roccia del triassico, ma non sarebbe possibile trovarla se la cercassimo sull'affollata spiaggia di Rimini sei ore dopo il suo passaggio, perché altre impronte l'avrebbero cancellata.
    Qui abbiamo delle lingue di cui non esiste nessuna testimonianza scritta per 2000 anni, e tu mi dici che è possibile trovare delle regole precise e inequivocabili, e chi ne trova delle altre è solo un dilettante. Ammesso che già questo sia vero, il discorso in ogni caso cambia quando si tratta non di parole di uso comune, ma di toponimi, di villaggi su cui sono passati per millenni decine di eserciti di analfabeti provenienti da ogni dove. E' già tanto se si trova qualche assonanza. Pensa a cosa è venuto fuori quando si sono forzatamente italianizzate le località della Sardegna o dell'Alto Adige, infischiandosene di tutte le regole linguistiche e logiche. Se la cosa è avvenuta pochi decenni fa, pensa a cosa può essere successo in due o tre millenni, senza il minimo documento scritto. E poi c'è il fatto che la geografia omerica non quadra nel Mediterraneo. Poiché i nomi dei luoghi non corrispondono alle descrizioni, finora si è sempre pensato che i nomi fossero giusti e le descrizioni sbagliate. E se fosse il contrario? Quando troviamo da un’altra parte dei luoghi con nomi molto simili in cui le descrizioni corrispondono, è difficile pensare che le coincidenze siano solo casuali

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  40. D'accordo con Felice Vinci e Marajani... più scienziati di tanti professoroni che rispondono. Forse gli brucia di non averci pensato prima. Sembrano più scuse che argomentazioni.

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