venerdì 16 novembre 2012

Il vaso di Pandṓra, e i suoi enigmi

L'espressione «vaso di Pandora» viene ancora oggi usata metaforicamente per alludere all'improvvisa scoperta di un problema che, una volta manifesto, non è più possibile tornare a celare.
Ma il proverbiale «vaso» era più precisamente un píthos, un orcio o una giara di forma caratteristica, dalla base stretta e l'imboccatura ampia e larga. Comuni già in epoca minoica, i píthoi venivano utilizzati per immagazzinare cereali, vino o olio. Alcuni erano abbastanza grandi per contenere dei corpi umani: ed è proprio in un píthos che si nasconde il pavido re Eurysteús quando Hēraklês gli porta il cinghiale che ha catturato. I píthoi fatti generalmente di ceramica, spesso decorati con figure a rilievo, e con larghi manici nella parte superiore.


Il mitico episodio del «vaso» di Pandṓra viene riportato unicamente da Hēsíodos:
Fino ad allora viveva sulla terra, lontana dai mali, la stirpe mortale,
senza la sfibrante fatica e senza il morbo crudele
che trae gli umani alla morte:
rapidamente, infatti, invecchiano gli uomini nel dolore.
Ma la donna, levando di sua mano il grande coperchio del píthos,
disperse i mali, preparando agli uomini affanni luttuosi.
Soltanto Elpís, la speranza, là nella casa intatta,
dentro rimase sotto i labbri del
píthos, né volò fuori,
perché prima Pandṓra rimise al vaso il coperchio,
secondo il volere dell'egioco Zeús, adunatore di nembi.
Ma gli altri, i mali infiniti, errano in mezzo agli umani;
piena, infatti, di mali è la terra, pieno ne è il mare,
e le malattie si aggirano di notte e di giorno fra gli uomini,
in silenzio portando dolore ai mortali;
e questo perché Zeús tolse loro la voce.
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]

Il testo originale è piuttosto avaro di dettagli. Non viene detto da dove venisse il
píthos, né come fosse finito tra le mani di Pandṓra. Non sappiamo per quale ragione la fanciulla ne sollevò il coperchio, ma le sue motivazioni personali passano in secondo piano, rispetto al fatto che tutto avveniva per volere di Zeús. Riconosciamo di essere di fronte a un motivo letterario: un passo di Hómēros parla di due vasi, piazzati sulla soglia della dimora di Zeús, da cui tutte le cose buone e le cose cattive venivano distribuite ai mortali (Iliás [XIV: -]).

Tra le domande e le perplessità sollevate dal píthos di Pandora, una delle più durature riguarda la natura dei kakoí, o «mali», che ne sarebbero usciti fuori. Hēsíodos li descrive come malattie che abbreviano e rendono penosa l'esistenza umana, e conferisce loro vita propria, rendendoli assai simili ai Nyktîdai, le schiera di personificazioni astratte generate da Nýx (Theogonía [-]). I kakoí di Hēsíodos si muovono a loro piacere tra gli uomini, in silenzio, di giorno e di notte, portando malattie e sofferenze. Inoltre, Zeús ha tolto loro la voce, in modo che non possano avvertire gli uomini del loro malefico appressarsi.
Quest'immagine, dei 
«mali» quali entità mute e malvagie, che vagano per il mondo arrecando malanni, sofferenza e morte agli esseri umani, sembra essere di derivazione orientale. Non diversamente, infatti, erano ritratti i dèmoni nelle concezioni della Mesopotamia, quali silenziosi veicoli di malattie e morte. Così li descrive uno scongiuro babilonese:
Essi sono liberi di muoversi,
essi schiamazzano sopra,
essi schiamazzano sotto.
Essi sono la bile venefica degli dèi.
Essi sono una grande tempesta proveniente dal cielo;
essi sono la civetta che alberga in città.
Essi sono generati dal seme di An,
essi sono i figli partoriti dalla terra.
Sugli alti tetti e sulle ampie terrazze essi turbinano come una tempesta.
Essi non sono impediti né dalle porte né dai chiavistelli,
essi sgusciano attraverso le porte come i serpenti.
Essi portano via la moglie dal seno del marito,
essi rimuovono il bambino dalle ginocchia del padre;
essi portano via il fidanzato della casa del suocero;
essi sono il silenzio e lo stupore che perseguita l'uomo alle spalle...
Udug-ḫul-a-meš [V: i: 3-8]

In uno studio elaborato più sul piano simbolico che mitologico, l'australiano Charles Penglase suggerisce che il vaso di Pandṓra potesse essere una rappresentazione del mondo infero; l'associazione sarebbe stato forse fissata dall'uso di raccogliere nei píthoi le ceneri e le ossa dei defunti. Di conseguenza, anche il Tártaros, dimora delle anime dei morti, poteva essere descritto in forma di vaso: un'immensa voragine cui si accedeva attraverso una stretta apertura superiore (Theogonía [-]). Di conseguenza, i kakoí che sprigionano dal píthos andrebbero intesi come le malefiche esalazioni provenienti dal mondo infero. (Penglase 1994)Consideriamo piuttosto improbabili le conclusioni dello studioso australiano, che vedrebbero nel tema dell'ánodos, l'emersione dalla terra di Pandṓra – testimoniata nell'iconografia –, una sorta di risalita dal mondo infero, affine al ritorno di Inanna dal regno di Arali. Il mito greco, a nostro avviso, appartiene a un tema affatto diverso. Sebbene i kakoí greci mostrino più di una relazione con i dèmoni mesopotamici, il mito ellenico di Pandṓra si colloca piuttosto sul piano teleologico. Come mito, appartiene al ciclo di «formazione» del mondo che noi conosciamo, preda della malattia e del dolore.Ma rimane un ultimo enigma, assai difficile da sciogliere. Che senso ha la «speranza»?
Soltanto Elpís, la speranza, là nella casa intatta,
dentro rimase sotto i labbri del
píthos, né volò fuori,
perché prima Pandṓra rimise al vaso il coperchio,
secondo il volere dell'egioco Zeús, adunatore di nembi. 
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]

Questo passo – al di là delle frettolose interpretazioni dei soliti divulgatori – è in realtà irto di difficoltà. Il primo problema è legato al significato della parola elpís, che viene generalmente tradotto con «speranza», pur avendo in greco molte diverse sfumature di significato («aspettazione, sollecitudine, timore», ma anche «opinione, pensiero»), con senso non necessariamente positivo; il verbo élpō copre un'ampia area semantica, significando via via «sperare, attendere, supporre, pensare». A seconda dei punti di vista, dunque, la «speranza» può essere percepita come una passiva e inutile illusione; oppure, come una forza che ci sostiene nelle avversità e ci spinge a migliorare la nostra condizione. Il fatto che Elpís si trovasse nel vaso, insieme ai kakoí, induce a pensare che fosse anch'essa intesa come un male. La parola elpís è altrove utilizzata dallo stesso Hēsíodos in senso negativo: essa è definita «vuota» [] e «non buona» [], perché induce gli uomini a nutrire illusioni sulla loro sorte futura trattenendoli dall'agire attivamente per migliorarla.
Spesso in difetto di viveri, basandosi su una vuota speranza,l'uomo inoperoso, indirizza al suo animo gravi parole.La speranza non buona accompagna l'uomo inoperosoche, seduto nel cortile, non ha mezzi sufficienti per vivere.
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]

Alcuni interpreti hanno proposto una traduzione neutra della parola elpís, quale «aspettazione». Ma di nuovo, aspettazione del bene o del male? Gli studiosi hanno sostenuto l'una e l'altra tesi. E, a seconda di come si intende la parola elpís, il fatto che Elpís rimanga confinata all'interno del vaso può assumere un senso positivo o negativo.

Il píthos va dunque inteso come una prigione o piuttosto come un contenitore? Richiudendo il vaso dopo averne fatto uscire i kakoí, Pandṓra vi ha imprigionato Elpís, impedendole di uscire, o piuttosto l'ha messa al sicuro? In altre parole, ha escluso definitivamente la «speranza» dalla vita degli uomini, oppure, evitando che si disperdesse, l'ha conservata in attesa di un suo futuro impiego? Le questioni sono strettamente legate le une alle altre, e tutte quante dipendono a loro volta dal valore della parola elpís in Hēsíodos. I dati a nostra disposizione non permettono di definire con esattezza quali fossero le intentiones auctores, e i vari interpreti hanno fornito le interpretazioni più differenti. Rinchiudendo per sempre Elpís all'interno del vaso, Pandṓra ha reso l'esistenza umana una vana sequela di dolori e sofferenze, completamente priva non solo di riscatto, ma anche dell'illusione di un riscatto? Oppure possiamo ancora trovare un sollievo alla nostra condizione umana, in fondo al píthos di Pandṓra?
Le letture classiche di questo mito propendono per l'ultima ipotesi. Il favolista Aísōpos, circa un secolo dopo Hēsíodos, ci presenta una variazione letteraria del mito del vaso, lasciando la porta aperta a un cauto ottimismo:
Zeús raccolse insieme tutte le cose buone in un píthos e le sigillò richiudendo il coperchio. Poi lasciò il vaso nelle mani degli uomini. Ma un uomo non riuscì a controllarsi e volle sapere cosa c'era nel vaso, dischiuse il coperchio e tutte le cose buone fuggirono via e tornarono al cospetto degli dèi. In tal modo le buone cose abbandonarono la terra, tranne Elpís, la speranza. Richiuso il coperchio, ella rimase all'interno del vaso. Questa è la ragione per cui tra la gente si trova ancora la speranza di riottenere tutte quelle buone cose che ci hanno abbandonato.  
Aísōpos: Mŷthoi [526]

Nella versione esopea, Pandṓra è sostituita da un anonimo personaggio maschile, e alcuni studiosi hanno proposto di vedervi una variante tradita dove è Epimētheús, e non sua moglie, ad aprire il vaso. Più probabile, però, è che si tratti di una semplice rielaborazione morale di un motivo letterario originariamente dissociato dalla figura di Pandṓra. Il fatto che il vaso contenga qui le «cose buone», e non i kakoí esiodei, è una variazione di poco conto, e il fine dell'apologo rimane invariato: una volta aperto il vaso, la vita umana diverrà preda del male e della sofferenza. Vero è che l'ottimismo di Aísōpos suona piuttosto sarcastico: Elpís è una speranza vuota e infondata, che pure, illudendoci, ci rende sopportabile la vita. Si tenga anche conto che, sullo stesso soggetto, Aísōpos ha composto una seconda favola, dove le «cose cattive» piombano dal cielo sulla terra, per rendere ardua la vita al genere umano; ma Zeús impedisce alle «cose buone» di fare lo stesso, e permette loro di scendere sulla terra solo una alla volta. E questa è la ragione per cui il male è assai più frequente del bene (Mŷthos [525]).

Il poeta Théognis, più o meno contemporaneo di Aísōpos, è assai più sconsolato e pessimista:

Elpís, la speranza, è l'unica buona cosa che sia rimasta tra gli uomini; tutte le altre ci hanno lasciato e sono tornate sull'Ólympos. Pístis, la potente fiducia, è partita; Sōphrosýnē, la moderazione, ha lasciato gli uomini; le Chárites, le grazie, amico mio, hanno abbandonato la terra. Dei giuramenti e dei giudizi degli uomini non c'è più da fidarsi, e nessuno più venera gli dèi immortali. La razza degli uomini pii è perita, e coloro che sono rimasti non conoscono più né regole né pietà.
Théognis: Phragmenta [I, 1135]

Tutte le buone cose, lasciando la terra, hanno semplicemente svelato la cruda e malvagia realtà della natura umana.




Bibliografia
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  • RIZZO Salvatore [cura]: ESIODO, Le opere e i giorni • Lo scudo di Eracle. Rizzoli, Milano 1958.
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  • VERNANT Jean-Pierre. L'univers, les Dieux, les Hommes. Récits grecs des origines. 1999. → I., L'universo, gli dèi, gli uomini. Il racconto del mito. Einaudi, Torino 2000.

2 commenti:

  1. Vedo con piacere che, dopo un po' di assenza, tornano gli interessati articoli del blog.
    Mi sono sempre chiesto che ci facesse la speranza nell'otre che conteneva tutti i mali del mondo.

    Due dubbi/riflessioni:

    1) Si possono rilevare analogie tra Pandora e la Blodeuwedd sposa di Llew nel Mabinogion.
    In entrambi i casi la sventura viene da creature affascinanti. Al di là dell'aspetto misogino metterei in evidenza (ma dove l'ho letto? Non ricordo) il problema di una creatura "artificiale", non sono nata da donna e non cresciuta in un contesto familiare che potesse trasmetterle un discernimento etico.

    2) Non è possibile vedere nel mito anche una nascosta valenza positiva, in quanto l'evento "vaso" apre la strada alla sofferena ed alla morte ma libera anche un maggiore potenziale di fertilità della natura? Più che strumento di Zeus Pandora è forse un "agente" del principio femminile? Essere vs. divenire: si tratta dell'opposizione propria di quello che Emanuele Severino chiama "il senso greco del divenire".

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  2. Ciao Gabriele... Purtroppo il tempo non basta mai (e mi scuso per il ritardo), ma stiamo ripartendo anche con il blog, lasciando alle rievocazioni leggendarie di Daniele Bello un blog apposito, Shahrazad (http://narrazioni.bifrost.it/).
    Ma sai che la tua idea è davvero affascinante? Anche Blodeuwedd è una creatura artificiale, come Pandṓra, anch'essa causa di mali per Llew. Si dirà che Blodeuwedd non è la prima donna, e non fa parte di un mito teleologico dell'introduzione del male nel mondo, ma sappiamo bene che il "Mabinogion" è stato riorganizzato in epoca molto tarda, e i suoi motivi vanno analizzati in trasparenza.
    Mi sembra interessante anche il contesto che vi è dietro: A differenza di Pandṓra, Blodeuwedd viene creata da Gwydion per dare una sposa a Llew, aggirando l'interdizione di Arianrhod. C'è un'interdizione anche nel racconto greco, sebbene al contrario, dove Prometheús avverte Epimetheús di non accettare doni da Zeús, consigliato violato all'istante grazie alla bellezza di Pandṓra.
    Direi che vale la pena indagare in questa direzione! Grazie per il consiglio!

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