Questo post non è necessariamente contro l'ipotesi di Felice Vinci, esemplificata nel suo fortunato libro Omero nel Baltico. È una mia personale riflessione critica su un certo modo di procedere in campi quali l’archeologia, la filologia, il mito e la sua interpretazione.
Diciamo subito, per togliere la questione di torno, che è impossibile dimostrare che cosa significasse effettivamente questo o quel mito. Qualsiasi interpretazione possiamo avanzare su personaggi e fatti leggendari è e rimane soltanto una pura interpretazione. Certamente, possiamo discutere su quale ipotesi sia più o meno valida, quale ci convince di più e quale invece ci sembri poco azzeccata. Al riguardo, possiamo portare indicazioni tratte dalla storia, dalla linguistica, dalla toponomastica, dalla letteratura, dall’archeologia. Possiamo imbastire paralleli e analogie, a patto che siano illuminanti.
Lo studio dei miti è un processo dialettico. È un dialogo in cui appassionati e studiosi si confrontano nel tentativo di avvicinarsi al punto di vista dei popoli antichi che quei miti crearono e ai quali credettero. Ma non potremmo mai provare, non in modo scientifico, di avere ragione.
Tolta di mezzo questa ingombrante premessa, bisogna però dire che non è tuttavia vero che ogni opinione valga quanto qualsiasi altra e che ogni modo di procedere sia valido quanto qualsiasi altro.
Il problema è che molti autori partono con una tesi precostruita e poi cercano di dimostrarla. Allo scopo, portano un gran numero di «prove» a favore, e vi costruiscono sopra un impianto assertivo, spesso addirittura imponente, nel tentativo di puntellare la loro ipotesi. D’accordo. Ma dov’è il problema?
Il problema è che, procedendo in questo modo, l’autore tende a portare soltanto prove a favore della sua teoria, ignorando quelle contrarie. Egli pesca dalla letteratura quelle argomentazioni che gli fanno comodo, senza curarsi del contesto a cui appartengono e fingendo di non notare le indicazioni a sfavore. Inoltre, molte delle «prove» presentate, sono spesso soltanto degli indizi interpretati a favore dell’autore, il quale si guarda bene dal presentare il rovescio della medaglia.
Ogni interpretazione, infatti, ha anche delle possibilità alternative. Un autore onesto dovrebbe perlomeno citarle e argomentare più o meno così: «Questa è la mia ipotesi. A favore posso presentare gli indizi A e B. Non considero l’indizio C perché debole. Purtroppo la mia ipotesi presenta anche il problema D. E in quanto all’indizio E, mi farebbe comodo interpretarlo in senso E1, ma potrebbe essere anche E2».
Tutte queste cautele mancano totalmente in Felice Vinci ed epigoni. Gli indizi, o supposti tali, vengono solo presentati nel loro aspetto favorevole. Manca totalmente un contraddittorio. E non intendiamo dire che un autore dovrebbe dar voce anche ai suoi detrattori, ma che dovrebbe essere egli stesso il primo detrattore del proprio lavoro.
Farò un esempio, tratto sempre dal lavoro di Felice Vinci. Nel voler dimostrare che i luoghi del mito greco vadano in realtà collocati nelle fredde terre del Baltico, egli pesca nella toponomastica del nord Europa quei nomi che in qualche modo rassomigliano a toponimi ed etnonimi citati nelle fonti elleniche. Egli presenta dunque un numero davvero incredibile di supposte «etimologie», basate però su pure assonanze: non viene presentata alcuna giustificazione filologica, né vengono presentate le possibilità alternative.
Che poi un nome sia antico o moderno, sia finnico, slavo, scandinavo, poco importa, basta che rassomigli sia pur vagamente al nome greco, come se questo dimostrasse un’affinità filologica, peraltro proiettata a un ipotetico passato di quattromila anni fa. E se montagne e fiumi finiscono col trovarsi sempre dove fa comodo a Vinci, è perché Vinci cita soltanto quelle montagne e quei fiumi che gli fanno comodo.
Ora, utilizzando un metodo simile, è facilissimo portare «prove» a sostegno della propria ipotesi. Forse Vinci non si accorge nemmeno di fabbricarsele ad hoc. Il guaio è che non basta il semplice accumulo di «prove» a dimostrazione di un'idea, se nessuna di queste è avanzata in maniera critica. Centinaia di «prove» fasulle non dimostrano una «teoria», ma la rendono altrettanto fasulla.
Vinci, insomma, non agisce come uno studioso, ma come un avvocato. Non cerca di scoprire cosa sia convincente, ma cerca di dimostrare a tutti i costi un'idea che ha per la testa. Non vuole essere probatorio in senso scientifico, ma convincente in senso retorico.
Credo sia un’inutile perdita di tempo smontare le centinaia di «prove» avanzate da Vinci, né mostrare come siano perlopiù delle libere associazioni di idee girate a favore del suo autore. Non sono qui per dimostrare che Vinci abbia torto. Altri lo hanno fatto assai meglio di me. Anzi, per quel che mi riguarda, non ho alcun problema ad ammettere che gli Elleni siano giunti dal Baltico, dall’Ucraina o dall’Anatolia (da qualche parte devono pur essere giunti, visto che costituiscono uno dei rami della diaspora indoeuropea). Soltanto, è il metodo usato dal suo autore a non convincermi.
Certo, a nessuno studioso piace vedere smontata la sua teoria. A tutti piacerebbe vedere dimostrate le proprie ipotesi. Ma guardiamoci negli occhi: cos’è più importante, avere ragione o scoprire la verità?
In una situazione ideale, il peggior nemico di una teoria dovrebbe essere lo stesso studioso che l’ha avanzata. Un’ipotesi non va difesa, come fa strenuamente Felice Vinci, il quale aggiunge nuove sedicenti «prove» a ogni edizione del libro, nel tentativo di rendere il suo impianto sempre più convincente. Un’ipotesi, al contrario, va messa alla prova, attaccata, criticata. E non dai suoi detrattori, ma dal suo autore in primis. È il modo più corretto e onesto per rendersi conto – l’autore per primo – se una teoria regge, se è valida, se ha una minima possibilità di avere un valore di verità.