sabato 22 dicembre 2012

Il Natale. Festa solstiziale

L'articolo che segue è il primo di due legati alla festività del Natale, qui analizzata nel suo mero senso simbolico, quale riattualizzazione in chiave cristiana delle antiche ricorrenze solstiziali. Il prossimo articolo, previsto tra qualche giorno, analizzerà invece il racconto della nascita di Gesù dal punto di vista mitico-comparatistico. L'autore, che si dichiara perfettamente laico, non intende fare né apologesi né polemica, nella migliore tradizione del sito Bifröst.

In molti Paesi del mondo è tradizione, la Vigilia di Natale, recarsi alla messa di mezzanotte. Invece di andare a letto e cedere alle lusinghe del sonno, i fedeli indossano sciarpa e cappotto, calzano i guanti e imboccano la porta, decisi a celebrare in chiesa la nascita di Gesù. 
Ma Gesù nacque proprio la mezzanotte del 25 dicembre?
Non lo sappiamo. I Vangeli non riferiscono in quale mese e giorno Maria diede alla luce il suo bambino e tanto meno se fu prima o dopo il tramonto. Anzi, una delle poche cose che si possono dedurre, è che Gesù non nacque in inverno, visto che i pastori erano nei pascoli con le loro greggi. La data in cui festeggiamo il Natale è del tutto convenzionale.
Possiamo però riformulare la nostra domanda: perché il calendario liturgico ha fissato la ricorrenza della natività del Signore il 25 dicembre? E perché la celebrazione si svolge proprio a mezzanotte? 
Il Natale cade a ridosso del solstizio d’inverno, che come tutti sanno è il giorno più buio dell’anno, così come la mezzanotte è l’ora più buia del giorno. Non è possibile trovare, in tutto il calendario, un momento in cui le tenebre siano più fitte e profonde. 
La luce è una comodità che oggi diamo per scontata. Ci basta portare la mano all’interruttore per illuminare la casa; di notte le città scintillano di lampioni, insegne e vetrine. Se salta la corrente il disagio non dura che pochi minuti e in ogni caso abbiamo la torcia elettrica nel cassetto. Raramente, nel corso della nostra vita, sperimentiamo davvero l’oscurità. 
I nostri antenati, invece, vivevano in un mondo nel quale l’unica fonte di luce era quella naturale. Fuochi e lanterne potevano forse ritagliare qualche chiarore nella notte, ma si era sempre circondati da una tenebra totale e impenetrabile. Ci è difficile capire quali implicazioni questo semplice fatto avesse sulla vita, il pensiero e le emozioni di quegli uomini, che restavano intimoriti e impotenti dinanzi al buio. 
Sforziamoci di metterci nei loro panni. Essi vivevano a stretto contatto con la natura, computando il tempo secondo i movimenti della Luna e del Sole e partecipando al ciclico fluire delle stagioni. Equinozi e solstizi erano i fulcri intorno ai quali incernieravano l’anno, le cui ricorrenze appartenevano a un calendario sacro. Possiamo immaginare con quale apprensione assistessero al progressivo accorciarsi delle giornate, quando l’estate declinava e avanzava inesorabile l’inverno! Periodo lungo e difficile, che costringeva a starsene chiusi in casa, sbrigando piccoli lavori e raccontando storie davanti al camino. 
Ma quando la stagione fredda arrivava al culmine e la notte faceva scoccare la sua ora più nera, i nostri antenati si riunivano per accendere candele e fiammelle. Il cupo solstizio invernale diventava paradossalmente rito di speranza: si celebrava la consapevolezza che la discesa nelle tenebre si era arrestata, che le giornate avrebbero presto ripreso ad allungarsi mentre il mondo cominciava la lenta ascesa verso la primavera. 
Fin dalla più remota antichità, fin dalla preistoria, questo periodo dell’anno fu oggetto di riti e solennità particolari. In quel crogiolo di civiltà che fu la Roma imperiale molti culti si sovrapponevano nel solstizio d’inverno. Vi cadevano i Saturnali, l’antichissimo carnevale romano dedicato a Saturnus, signore dell’età dell’oro. Gli Egiziani celebravano il dio Wsjr e gli Ebrei la loro festa delle luci, Ḥănukkāh. Il 25 dicembre ricorreva la nascita di Miθra, divinità importata dalla Persia già nel tardo periodo repubblicano, e nello stesso giorno l’imperatore Aurelianus aveva fissato, nel 274, la festa del Sol Invictus.
Quando, nel 386, Iōánnēs Chrysóstomos spronò la sua comunità di fedeli a festeggiare il Natale il 25 dicembre, non fece che confermare un uso già diffuso presso i cristiani. I padri della Chiesa conoscevano troppo bene il significato dei simboli per non festeggiare la nascita del Salvatore in una data che non fosse a suo modo significativa. E ponendo il genetliaco di Gesù in coincidenza con le feste pagane del solstizio, essi non intendevano certo cancellare l’antichissima ricorrenza, quanto piuttosto recuperarla in senso cristiano, dandole un’interpretazione che da stagionale si faceva universale. Gesù era la luce del mondo che si accendeva nella più profonda tenebra della storia per portare speranza e salvezza al genere umano.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo...
Giovanni [I: 9]

Che idee del genere fossero nell’aria da qualche tempo l’aveva già testimoniato il romanissimo Vergilius: un passo particolarmente ispirato dei suoi Bucolicon gli avrebbe assicurato fama di profeta nel Medioevo e persino un ruolo di coprotagonista nella Commedia dantesca.
Ora è giunta l’ultima età della profezia cumana,
riprende da capo il grande ciclo dei secoli;
ora anche la Vergine torna, tornano i regni di Saturnus,
dall'alto cielo è fatta scendere una nuova progenie.
Tu dunque proteggi, casta Lucina,
il fanciullo che sta per nascere,
con il quale avrà fine la generazione del ferro
e sorgerà in tutto il mondo quella dell’oro.
Vergilius: Bucolicon Libri [IV: 4-10]

La storia si riavvolge su sé stessa, si chiude l’età del ferro e si rinnovella l’età aurea. È il ritorno in quel giardino di Eden da cui fummo cacciati all’inizio del tempo per essere condotti in questo mondo che è tutt’uno con il peccato e con la morte. È il ristabilimento della condizione iniziale in cui umano e divino sono compenetrati in una sola natura. Cos’altro è infatti la storia umana se non la misura del nostro esilio da Dio? Con la nascita del Divino Bambino questa forzata separazione arriva alla fine: giunti nel punto più oscuro e profondo del nostro cammino, cominciamo a salire nuovamente verso la luce. 

I conoscitori dei simboli sanno bene in che modo certi lentissimi moti delle stelle hanno da sempre illuminato il senso del tempo e della storia umana. Quando Vergilius scrisse la sua «profezia», si stava verificando un importante mutamento astronomico: la lentissima retrocessione dei punti equinoziali attraverso lo zodiaco faceva sì che il primo giorno di primavera non sorgesse più sotto gli auspici dell’Ariete, segno nel quale il Sole l’aveva annunciato per più di duemila anni, ma nel segno dei Pesci. E come ben sapevano i Magi, il puer meraviglioso sarebbe nato proprio quando i cieli avrebbero segnato questo passaggio epocale. Non a caso i primi cristiani utilizzavano, come segno di riconoscimento, la forma stilizzata di un pesce. Ichthýs, acrostico greco di «Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore».


I simboli non sostituiscono la fede, né la spiegano, ci aiutano però a interiorizzarla. I primi Cristiani riscrissero una simbologia che sapevano antica, sacra, e autentica. E qui è necessario superare un luogo comune e stabilire che il mŷthos non è semplicemente una finzione letteraria, ma una mappa in grado di guidarci attraverso le regioni più nascoste e segrete dell’anima umana. Il mito si nutre di simboli, i simboli sono attualizzati dal rito ed è attraverso il rito che ciò che è eterno sboccia nel tempo e nello spazio. 
Ritorniamo dunque alla nostra domanda iniziale: perché celebrare la messa di Natale nel solstizio d’inverno e proprio a mezzanotte? 
La spiegazione che abbiamo dato - come un rito sorto in epoche remotissime sia stato riletto da tante civiltà, prima di farsi cristiano, e sia stato infine trasmesso fino a noi – potrà soddisfare lo studioso di storia della religioni, ma alla fine rimaniamo con l’impressione che vi sia qualcosa di più profondo. L’analisi filologica, teologica, filosofica è soltanto arida scomposizione, se non è accompagnata da un’esperienza più intima. Lo sanno bene i temerari che escono di casa la notte di Natale, incuranti del freddo e del gelo, ben decisi a non perdere l’appuntamento con la messa di mezzanotte.
Spesso siamo ossessionati dalla comprensione razionale e dimentichiamo che il rito si muove soprattutto sul piano dell’esperienza. Il fascino della celebrazione notturna consiste proprio nel buio, nelle fiammelle che danzano nella penombra, nelle grandi navate che d’un tratto si riempiono delle note di Stille Nacht. Mezzanotte è l’ora in cui la mente si predispone al sonno ed ai sogni: siamo più suggestionabili, più ricettivi. Quella che percepiamo è, a tutti gli effetti, la fiaba stessa del Natale. Il sermone più erudito o l’omelia più brillante non potranno mai ricreare una tale misteriosa alchimia. 
Ma è necessario aprire il cuore e predisporci al senso del meraviglioso, farci prendere per mano – come bambini – dal puro piacere dell’affabulazione. Il racconto del falegname e della sua sposa che trovano rifugio in una stalla, il neonato deposto in una mangiatoia col bue e l’asinello che lo vegliano solerti, i pastori che lo visitano, la stella che guida i Magi, sono sì elementi di un racconto sacro, l’irruzione di Dio nella storia, ma sono anche – a livello più intimo – gli aspetti di una favola dolcissima che parla innanzitutto al cuore dell’uomo. Un percorso alla scoperta del Natale non può esimersi dall’esplorare il linguaggio dei simboli e dei miti che ne rappresentano il mistero in forma di racconto, dei riti con i quali, ogni anno e sotto tutte le latitudini, gli uomini e le donne fanno rivivere l’archetipo del Bimbo che nasce. È il modo in cui il mito esce dall’eternità ed entra nel mondo. 
Accendendo una candela la notte di Natale, possiamo sperimentare – di nuovo e per sempre – la luce che rischiara le tenebre, la speranza che il lungo esilio volga al termine e si prepari l’ascesa verso la nostra salvezza.

Dall'introduzione di Dario Giansanti al libro
La magia del Natale del mondo, di Claudia Maschio (QuiEdit 2006)


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