martedì 25 dicembre 2012

Il Natale. Analisi comparatistica

Il secondo articolo sul Natale analizza, in modo necessariamente veloce e superficiale, il racconto della nascita di Gesù in relazione ad alcuni cliché mitici diffusi dalla Grecia all'India. Il discorso viene qui condotto unicamente nel campo della comparazione letteraria e mitologica. Ci limitamo a esporre delle osservazioni e delle ipotesi di lavoro: ai lettori trarre delle conclusioni.


Il racconto della nascita di Gesù è materia piuttosto delicata. Fa parte della nostra cultura e delle nostre più sentite tradizioni, e questo lo ammetteranno anche i laici, mentre i credenti gli conferiscono un valore di verità religiosa. Non è facile sfuggire alla tentazione dell'apologesi, o della polemica.
In questo articolo cercheremo in analizzare il racconto della nascita di Gesù con i metodi e gli strumenti della mitologia comparata. Che quel racconto sia esso stesso un mito mi sembra, più che una premessa, una necessaria definizione, e uso qui la parola «mito» in senso tecnico, a indicare una storia posta a fondazione di una tradizione, indipendentemente dalla sua validità storica.
Che alcuni temi presenti nella vicenda di Gesù mostrino affinità con altre biografie mitiche (ḤurrDiónysosHēraklêsMiθra...) è un'osservazione addirittura banale; e che il natale del Signore, tradizionalmente collocato il 25 dicembre, sia una festività rubata a ricorrenze solstiziali più antiche, è cosa ben risaputa. Gli studiosi, compresi i maggiori esegeti dei testi biblici e cristiani, sanno bene come il linguaggio mitico faccia uso di tópoi universali e come gli stessi simboli non facciano che rincorrersi e ritrovarsi in tutta la storia culturale e religiosa dell'umanità. Il concetto di copyright è moderno, e i miti non si inventano: si ereditano. I sapienti, i poeti, i mitografi, non pretendevano mai di essere «originali», ma si facevano interpreti di tradizioni più antiche, che adattavano a mutate realtà culturali e nuove ideologie. Il racconto evangelico non sfugge a queste regole.

Il mito della nascita di Gesù dipende dai vangeli di Matteo e Luca e da un certo numero di apocrifi, i cosiddetti «vangeli dell'infanzia». Non è qui il caso di fare un'analisi dettagliata delle fonti: al riguardo esiste una letteratura sterminata. Le due fonti canoniche sono differenti nel tono e (parzialmente) nel contenuto, e possono essere integrate, con le necessarie cautele. Ai fini della nostra analisi distinguiamo tre temi principali:
  1. il concepimento soprannaturale di Gesù (Matteo, Luca)
  2. la nascita di Gesù tra i pastori (Luca)
  3. la rivalità tra Gesù e re Erode (Matteo).
Per rilevare delle omologie significative, nello studio dei miti, è necessario poter mettere a confronto non dei semplici motivi, ma degli schemi. Tanto più gli schemi si fanno complessi, quanto più possiamo essere certi che ci troviamo di fronte a motivi ereditati. Procederemo per questo studio esaminando prima i motivi generali, portandoci poi a confrontare vicende sempre più dettagliate e specifiche.

1. Il motivo del concepimento soprannaturale

La storia del concepimento soprannaturale di Gesù è riportato sia da Matteo che da Luca, con toni piuttosto diversi. La versione di Matteo assume il punto di vista di Giuseppe, la cui fidanzata Maria si scopre misteriosamente incinta. La reazione del mite falegname è piuttosto contenuta: vuole ripudiare la promessa sposa senza esporla a un pubblico scandalo. Ma ecco che un angelo, in sogno, gli rivela che il figlio di Maria, a cui egli metterà nome Gesù, è stato concepito ad opera dello Spirito Santo in modo da adempiere alle antiche profezie (Matteo [1, 18-25]). La versione di Luca, più fiabesca e aperta al meraviglioso, è invece tutta incentrata sulla giovane Maria, fanciulla di Nāṣǝraṯ, a cui compare l'arcangelo Gabriele, annunciandole la prossima maternità. L'arcangelo descrive il nascituro con vividi tratti regali e messianici: «sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di David, suo padre, e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno e il suo regno non avrà mai fine». (Luca [2, 26-38])


Beato Angelico, "Annunciazione".

Prima di proseguire nella nostra analisi, bisogna sgomberare il campo da un falso problema. Il mitema di riferimento riguarda un concepimento soprannaturale. Il motivo della verginità di Maria è soltanto secondario, nonostante abbia avuto uno sviluppo teologico strabordante.
Nell'economia del racconto di Luca, la risposta sbigottita di Maria all'annuncio dell'angelo, «Come avverrà questo? Io non conosco uomo» [2, 34], è finalizzata a sottolineare la natura soprannaturale del concepimento di Gesù, futuro re e māšîªḥ di Israele. Analogamente, la notazione di Matteo, «[Giuseppe] prese con sé la sua sposa, ma non si accostò a essa fino alla nascita del figlio» [1, 24-25] serve soltanto a rassicurarci sul fatto che Gesù non era figlio di Giuseppe.
Nei testi evangelici il motivo della verginità riveste importanza accessoria, e non ha alcun intento morale: serve unicamente a sottolineare la natura soprannaturale del concepimento di  Gesù. Nonostante ciò, già nei primi secoli del cristianesimo, la speculazione mariana ha dato enorme risalto al dato ginecologico, fino ad arrivare all'esasperazione del semper in virginitatis integritate della Madonna, prima, durante e dopo il parto.
Il mitema del concepimento soprannaturale, tradizionalmente legato alla nascita di un semidio, sovrano o salvatore, è talmente diffuso, dall'Irlanda all'India, che non vale quasi la pena di elencarne le infinite ricorrenze letterarie. Per i maggiori eroi greci, quali Perseús, Hēraklês, Thēseús, Akhilleús, è quasi la prassi essere figli di un dio e di una mortale. Si pensi anche alle nascite soprannaturali di Romulus, o di Servius Tullius nei miti monarchici romani, o di Conaire Mór e Cú Chulainn in quelli irlandesi. In India, il motivo del concepimento da parte di un dio diviene quasi una tecnica di fecondazione artificiale: nel Mahābhārata, le due mogli del principe Pāṇḍu, non potendo aver figli dal marito, utilizzano un mantra che permette loro di scegliere da quale dio farsi mettere incinte. Kuṃtī invoca DharmaVāyu e Indra, da cui ha rispettivamente i figli Yudhiṣṭhira, Bhīma e Arjuna (ma in precedenza aveva già avuto il primogenito Karṇa dal dio-sole Sūrya); Mādrī invoca i due Aśvinau e partorisce una coppia di gemelli: Nakula e Sahadeva. Questi cinque, più Karṇa, saranno gli eroi del poema.

Kuṃtī invoca Sūrya

In Italia, paese fieramente cattolico, il «dogma» del concepimento soprannaturale di Gesù viene presentato come evento unico e eccezionale, peraltro di natura storica, e non la semplice attestazione di un onnipresente leit-motiv letterario. Una visione «cristocentrica» che non aiuta a cogliere il significato simbolico di questo motivo mitico, significato ben conosciuto agli evangelisti, i quali lo hanno riletto e attualizzato alla luce della Buona Novella.
Ma proprio a causa della sua enorme diffusione, il mitema del concepimento soprannaturale poco ci aiuta a districare il complesso di motivi mitici legati al racconto evangelico. Bisognerà dunque sollevare lo sguardo e cercare degli schemi assai più precisi e dettagliati.

2. Il malvagio sovrano e il re neonato

C'è una sottoclasse piuttosto interessante di miti legati al concepimento soprannaturale che possiamo generalizzare nel modo seguente.
A un malvagio sovrano, geloso del proprio rango e dei propri privilegi, viene profetizzata la nascita di un bimbo destinato a detronizzarlo. Il re, che è spesso il padre o lo zio della ragazza destinata a dare alla luce il futuro rivale, prende tutte le precauzioni affinché ella non possa concepire un figlio. Nonostante ciò, la fanciulla si ritrova misteriosamente in dolce attesa e, presto, partorisce un bimbo. Infuriato, il sovrano ne ordina l'uccisione. A seconda delle versioni, il neonato viene portato via, scambiato con un sostituto, o abbandonato sulla corrente di un fiume. Sfugge comunque alla morte e, strappato alle grinfie del re, viene allevato lontano, in un ambiente bucolico, in mezzo ai pastori e alle loro greggi. Una volta cresciuto, torna indietro e rivendica i propri privilegi: elimina il sovrano e diviene re al suo posto.
Questo mitema è diffusissimo. Ne elenchiamo tre esempi, tratti rispettivamente dal mito greco, celtico e romano:
  • Elleni. Ad Akrísios, re di Argo, viene profetizzato che perderà la vita e il trono a causa del figlio di sua figlia. Segrega dunque la ragazza, Danáē in una torre, con l'assoluta proibizione di incontrare uomini. Ma Zeús la visita trasformato in una pioggia d'oro e ben presto Danáē partorisce il figlio Perseús. Il re ordina che madre e figlio siano gettati in mare in una cassa di legno, augurandosi che finiscano per morire tra le onde. La cassa finisce però per spiaggiarsi su un'isola, e il bimbo può crescere tra i pescatori. Divenuto adulto, Perseús torna in Argo e uccide il nonno colpendolo casualmente con il disco nel corso di una gara. (Apollodoro: Bibliothḗkē [II: 4])
  • Celti. Una fiaba irlandese narra di Balor, signore delle isole Ebridi, a cui viene profetizzata la morte per mano del figlio di sua figlia. Ordina allora che sua figlia Ethniu venga allevata da alcune nutrici sullo scoglio di Tór Inis, in modo che non venga nemmeno a sapere dell'esistenza di un sesso diverso dal proprio. Ma il giovane Cían delle Túatha Dé Danann, arrivato in Tór Inis, incontra Ethniu ed ha con lei un'intensa storia d'amore. In una versione della vicenda, la ragazza partorisce tre figli, e Balor ordina che vengano gettati in mare e annegati. Uno di loro, però, cade fuori dal sacco e Cían lo conduce in Ériu sulla barca di Manannán mac Lir. Divenuto adulto, Lúg ucciderà il nonno e diverrà re delle Túatha Dé Danann (John O'Donovan: Mac KineelyWilliam Larminie: West Irish Folk-Tales).
  • RomaniAmulius, divenuto re di Alba Longa dopo aver spodestato il fratello Numitor, uccide i figli di questi, in modo che non possano contendergli il trono; dopodiché obbliga la figlia, Rea Silvia, al voto di castità delle sacerdotesse vestali. Ma nel corso di un temporale, in un bosco sacro, la ragazza viene presa con la forza dal dio Mars. Incinta, dà alla luce due gemelli. Amulius ordina che siano abbandonati in un cesto lungo il fiume Tevere. Così avviene: ma la cesta si arena in un luogo tra i colli Palatino e Capitolino, e i due bimbi vengono nutriti da una lupa. È un pastore, Faustolus, a trovarli e ad allevarli. Romulus e Remus crescono liberi tra pastori e briganti, finché scoperta la loro eredità, uccideranno Amulius e rimetteranno Numitor sul trono. Romulus fonderà Roma e ne sarà il primo re (Tito Livio: Ab Urbe condita libri [I, 3-6]).
Questi racconti esemplificano uno schema comune, i cui elementi si ripetono con precisione aritmetica: (a) la profezia sul bambino destinato a spodestare il re; (b) le precauzioni prese dal re per impedire alla fanciulla di diventare madre; (c) il concepimento soprannaturale del protagonista; (d) il tentativo da parte del re di liberarsi del bambino; (e) la miracolosa sopravvivenza del bambino, che cresce in un luogo appartato per infine compiere la profezia.
Mentre la versione greca e quello celtica hanno una somiglianza talmente stretta che non si può escludere un passaggio diretto (la fiaba irlandese è stata raccolta nel Donegal intorno alla metà dell'Ottocento); la vicenda romana mostra un certo grado di rielaborazione e, oseremmo dire, di razionalizzazione. Qui non vi è alcuna profezia: re Amulius è abbastanza intelligente da rendersi conto che i discendenti del fratello cercheranno di ristabilire i diritti di Numitor, quindi fa del tutto per eliminarli. E Rea Silvia non viene segregata, ma soggetta alle regole di un sacerdozio. Sono cambiamenti poco significativi.
Si noti il dettaglio che i vari sovrani decidono di eliminare i bambini gettandoli in acqua. Solo nella versione celtica c'è un esplicito tentativo di annegamento; sia in quella greca che in quella romana l'ordine del re è curiosamente meno drastico: nell'una, madre e figlio saranno abbandonati in mare in una cassa di legno; nell'altra, i due gemelli vengono affidati alla corrente del fiume in una cesta di vimini. Una scelta tanto illogica non è giustificabile all'interno del racconto. Ma è significativo dal punto di vista letterario: le esigenze del racconto vogliono che i bambini siano destinati a salvarsi e a tornare per adempiere al loro destino. L'elemento liquido, lungi dall'essere strumento di morte, diviene strumento di separazione tra il malvagio sovrano e il re neonato, e dunque di salvezza per quest'ultimo.

Ernest Lee Major,"Danae"

3. Il racconto evangelico e i suoi omologhi.

Il racconto della nascita di Gesù viene sviluppato separatamente in Luca e Matteo.
  • LucaGiuseppe e Maria si trovano a Bēṯlẹḥẹm, in Giudea, dove si sono recati in obbedienza al censimento ordinato dal governatore Quirino, quando per Maria si compiono i giorni del parto. Poiché non hanno trovato posto in albergo, ella depone il piccolo Gesù in una mangiatoia. La nascita del futuro māšîªḥ viene annunciata dagli angeli ai pastori che pernottano nei campi, i quali giungono per primi alla stalla per adorare il bambino (Luca [2, 1-20])
  • MatteoGesù nasce a Bēṯlẹḥẹm. I magi, avendo visto una stella annunciare la nascita del re di Israele, arrivano a Gerusalemme per vedere il bambino. Re Erode, turbato e sospettoso, li chiama al suo cospetto e viene così a sapere della nascita del māšîªḥ. Invia allora i magi a Bēṯlẹḥẹm, ma chiede loro di tornare a riferirgli del bambino. I magi arrivano alla casa dove si trova Maria con il proprio figlioletto. Lo adorano e gli offrono in dono oro, incenso e mirra. Ma, avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, tornano indietro da un'altra via. Il re, infuriato e deluso, ordina allora di uccidere tutti i bambini di Bēṯlẹḥẹm sotto i due anni. Ma Giuseppe, avvertito in sogno, ha già condotto Maria e suo figlio in Egitto, dove i tre rimarranno fino alla morte del re (Matteo [2, 1-20])
Entrambi gli evangelisti concordano nell'assegnare a Bēṯlẹḥẹm l'onore di aver dato i natali a Gesù, e la ragione è la necessità di rendere veritiera una famosa profezia: «E tu, Bēṯlẹḥẹm di Ẹfrāṯāh, non sei certo la minore tra le città di Giuda, perché da te uscirà un capo che guiderà Israele, mio popolo» (Michea [5, 2]). Matteo non dà spiegazioni sul perché Maria si trovasse a Bēṯlẹḥẹm. Luca accenna al censimento stabilito dal governatore della Siria, Publio Sulpicio Quirino, creando così un anacronismo con il testo di Matteo, in quanto tale censimento risale al 6 d.C., cioè dieci anni dopo la morte di Erode il Grande (37-4 a.C.).
Per il resto, i due evangelisti focalizzano dettagli diversi della vicenda: Luca si concentra sulla nascita di Gesù tra i pastori, mentre Matteo racconta dell'arrivo dei magi e dei tentativi di re Erode di uccidere il bambino. I due racconti possono essere facilmente integrati l'uno con l'altro, trattandosi di due elementi di un medesimo schema mitico: quello del confronto/scontro tra il sovrano malvagio e il re neonato.
Ma prima di entrare nei dettagli, dobbiamo analizzare altre due storie, assai importanti, provenienti dalle due estremità del dominio indoeuropeo: l'una dalla Grecia, l'altra dall'India.
  • Grecia. Krónos dai torti pensieri, l'ultimo dei titani, ha appena strappato a suo padre Ouranós il dominio supremo sull'universo. Un oracolo lo ha tuttavia avvertito che, com'egli ha rovesciato suo padre dal trono, sarà a sua volta spodestato da uno dei suoi discendenti. Così, quando la sua sorella-sposa Rhéa gli partorisce dei figli, il crudele titano li ingoia uno dopo l'altro, ed è questa la sorte di Hestía, Dēmḗtēr, Hḗra, Háıdēs e Poseidôn. Incinta per la sesta volta e decisa a salvare il figlio, Rhéa si reca di nascosto sull'isola di Creta e lì partorisce il piccolo Zeús. Subito la dea-terra prende il neonato tra le braccia e lo nasconde in un antro scosceso. Il piccolo Zeús, nutrito con latte e miele, trascorre l'infanzia tra i pastori del monte Ida. Divenuto adulto, muove guerra a Krónos e prenderà il suo posto, regnando tra gli dèi. (Esiodo: Theogonía [453-490]; Apollodoro: Bibliothḗkē [I, 1]). In un'altra versione, i natali di Zeús sono collocati in Arcadia ed è la ninfa Nédē ad attraversare il mare per portare il neonato a Creta (Callimaco: Hymnia [I])
  • India. Kaṃsa di Mathurā, re degli Yādava, viene profetizzato che sarà detronizzato dal figlio di sua sorella Devakī.  Il crudele re getta allora in prigione la donna, insieme a suo marito Vasudeva, e uccide sistematicamente i loro figli, man mano che vengono alla luce. Sette bambini vengono così eliminati. Quando Devakī partorisce per l'ottava volta, Vasudeva raccoglie il piccolo Kṛṣṇa ed esce magicamente dalla prigione. Ma il fiume Yamunā spalanca le acque dinanzi a Vasudeva, permettendogli di passare nel distretto di Vṛndāvana. Qui, in una casa vaiṣyaYaśodā, moglie del pastore Nanda, ha appena partorito una figlia e Vasudeva sostituisce i due infanti. In seguito, scoperto l'inganno, re Kaṃsa ordina ai suoi uomini di uccidere tutti i neonati di Mathurā. Ma Kṛṣṇa, allevato da Nanda e Yaśodā, trascorre la sua infanzia nei boschi di Gokula, tra i ricchi pastori e le loro mogli. Il giovane cresce in compagnia di molte compiacenti pastorelle (gopī), finché, divenuto un uomo, torna a Mathurā, uccide re Kaṃsa e ne prende il posto.
Sono racconti emblematici, che ripetono punto per punto i medesimi elementi che avevamo visto nei miti elencati in precedenza. C'è sempre il confronto tra un vecchio sovrano, geloso del proprio potere e dei propri privilegi, e il bambino che le profezie destinano a usurpargli il trono. Ma ora le affinità si fanno più strette. Il sovrano, lungi dal limitarsi a uccidere il bambino, ne elimina precedentemente tutti i fratelli maggiori (nel caso di Krónos), oppure i fratelli maggiori insieme a tutti i bambini del regno (nel caso di Kaṃsa). È il motivo della «strage degli innocenti» perpetrata da Erode nel racconto evangelico. E anche qui, come negli esempi dati in precedenza, si verifica il motivo della «fuga attraverso le acque»: il fiume Yamunā si apre al passaggio di Vasudeva; così come Rhéa (o Nédē) attraversano il tratto di mare tra la Grecia e Creta per portare il piccolo Zeús al sicuro sull'isola.
Il racconto evangelico non pone una esplicita «fuga attraverso le acque», sebbene la famiglia di Giuseppe si sposti verso l'Egitto, con percorso inverso a quello compiuto, a suo tempo, da Mosè, che aveva aperto le acque del Mar Rosso per far passare il popolo ebraico, nell'esodo verso la Terra Promessa. La citazione non è casuale: anche Mosè si era salvato da una strage di bambini analoga a quella ordinata da Erode (e peraltro in una culla affidata alle acque del fiume). Anche il percorso di Giuseppe e Maria può dunque essere inserito, sebbene in maniera più implicita, nel solco di una tradizione relativa a una «fuga attraverso le acque».
Ultimo dettaglio, sia Zeús che Kṛṣṇa crescono in un luogo bucolico, in compagnia dei pastori e delle loro mandrie, come anche Romulus e Remus nel mito romano. Nel caso di Gesù il motivo compare soltanto in Luca, dove sono i pastori i primi ad accorrere ad adorare il bambino, particolare che appare del tutto scisso dal crudo racconto di Matteo della rivalità tra Gesù e Erode. In Luca, Gesù non si nasconde: i pastori fanno parte del paesaggio. La loro presenza in Luca, però, messa in relazione con il racconto di Matteo, rivela l'archetipo comune, il racconto del re bambino portato in salvo, in un ambiente semplice e pastorale, dalle mire del vecchio e malvagio sovrano.
I tre miti presentano anche altri elementi comuni, sebbene meno stringenti di quelli qui analizzati. Ai magi che visitano Gesù corrispondono i vecchi saggi che vanno a trovare il piccolo Kṛṣṇa. Notevole anche il motivo dei «doni funzionali» recati al divino fanciullo. I magi recano a Gesù oro, incenso e mirra, riconoscimento, rispettivamente, di regalità, sacerdozio e mortalità (ma le interpretazioni possono essere molteplici). Analogamente, la culla d'oro in cui Zeús viene messo a giacere è, ancora una volta, simbolo di regalità; le sue nutrici Thémis e Adrásteia rimandano a concetti di legge e giustizia; il latte e il miele con cui Zeús viene nutrito preludono all'ambrosía – cibo d'immortalità – che Zeús consumerà una volta preso il suo posto nell'Ólympos. La cornucopia, l'inesauribile corno dell'abbondanza della capra Amáltheia, assolve di nuovo a una funzione regale.

Stiamo dunque rilevando schemi piuttosto dettagli e complessi, comuni tanto alla Grecia quanto all'India, ancorché interpretati a volte in maniera divergente, i cui elementi sono regolarmente presenti anche nel racconto della nascita e dell'infanzia di Gesù. Stante l'ampia area di diffusione, che sembra rimandare a un archetipo indoeuropeo, possiamo ora chiederci come il racconto sia arrivato in Israele, e per qualche tramite sia stato adottato nei racconti evangelici.

Vasudeva e Kṛṣṇa

4. Alla corte di Ciro il grande.

Il mito della nascita di Kṛṣṇa non è affatto un caso isolato, nel mondo indoiranico. Si pensi al mito persiano di re Fereydūn, narrato da Ferdowsī nello Šāhnāmeh.
  • Īrān. Il diabolico re Ẓaḥḥāk, che ha usurpato il trono dell'Īrān e imposto un regno di terrore che dura ormai da mille anni, sogna di essere abbattuto e sconfitto da un misterioso giovane armato da una mazza di ferro. I magi, interrogati, gli rivelano che il suo regno è destinato a finire per mano di un eroe, che però deve ancora nascere. Il bambino è Fereydūn, e Ẓaḥḥāk cerca di ucciderlo dal momento in cui viene alla luce. La madre fugge però sulle montagne e consegna il neonato a un pastore, affinché lo allevi e lo nutri con il latte delle migliori mucche. Divenuto grande, Fereydūn spodesterà Ẓaḥḥāk dal Trono d'Avorio, e diverrà re dell'Īrān.
Questa attestazione, che pone di prepotenza il tema del «malvagio sovrano e del re bambino» nell'ambito di un altro ciclo mitologico, quello dei re primordiali, dimostra la presenza del motivo letterario in Īrān. Sebbene Ferdowsī scriva nell'XI secolo, i miti a cui fa riferimento appartengono a un'antichità portentosa: Fereydūn e Ẓaḥḥāk sono già presenti nell'Avestā e nei più antichi libri zoroastriani, con i nomi di Θraētaona Aži Dahāka.

Quando il re di Persia, Ciro il Grande (±560-530 a.C.), liberò il popolo ebraico dalla deportazione babilonese e lo annetté al suo sterminato impero, le tradizioni mazdee diedero ai teologi ebrei una gran quantità di materiale su cui riflettere. Il concetto lineare della storia, la credenza in una vita post mortem, il giudizio universale, l'idea di un salvatore escatologico (cfr. medio-persiano saošyant, avestico astvat-ǝrǝta), furono solo alcune delle concezioni persiane che fluirono in questo fervido crogiolo culturale e che gli ebrei elaborarono secondo gli stilemi della propria cultura. Il cristianesimo le ereditò a sua volta e le trasmise al canone religioso occidentale. Zaraθuštra può essere considerato a buon diritto uno dei fondatori culturali dell'occidente.
Lo stesso Ciro venne considerato dagli ebrei alla stregua di un liberatore, e non è escluso che fornì ai loro scribi e profeti un modello ideale per l'immagine di un sovrano universale. Ma sebbene Ciro sia un personaggio perfettamente storico, Erodoto racconta su di lui una curiosa vicenda...
  • Erodoto. Astyágēs, re dei Medi, una volta ottenuto il potere sui persiani, sogna che dal grembo di sua figlia Mandánēs spunti una vite che, crescendo, finisce per ricoprire tutta l'Asia. I magi, chiamati a interpretare il sogno, gli rivelano che Astyágēs è destinato a essere spodestato dal figlio di sua figlia Mandánēs. Appena la donna dà alla luce il piccolo Kýros, Astyágēs chiama il fedele Hárpagos e gli consegna il neonato, già avvolto nei panni funebri, ordinandogli di ucciderlo. Ma Hárpagos ne incarica a sua volta un pastore, a nome Mithradátēs. Costui, invece di obbedire, decide di allevare il bambino, consegnando a Hárpagos il corpo del proprio figlioletto, nato morto. Kýros cresce così tra i pastori della Media; divenuto grande, fomenta una ribellione, si mette a capo dei persiani, muove guerra ai medi e li sbaraglia. Kýros diviene re dell'impero persiano e Astyágēs viene preso prigioniero (Historíai [I: 107-130])
Di nuovo un'altra variazione della medesima sinfonia. Ma come mai troviamo il tema del «malvagio sovrano e del re bambino» associato questa volta a un personaggio perfettamente storico come il re dei re Ciro (iranico Kūruš, greco Kýros)? E soprattutto, chi ha attribuito tale vicenda mitica al re persiano? Difficile andare a questionare sulle fonti di Erodoto, che scrive un secolo dopo i fatti. Sembra di capire che il tema in questione fosse considerato inscindibile dall'idea di un sovrano universale (si veda anche l'autobiografia di re Sargon di Akkad, 2334-2279 a.C.). Tale vicenda, ereditata dai miti più antichi, in qualche modo legittimizzava l'eccezionalità di un monarca, che a un certo punto l'Īrān e il Medio Oriente avevano preso ad associare a idee messianiche.

Sul concetto ebraico del māšîªsono stati versati i proverbiali fiumi d'inchiostro, e non è qui il caso di approfondire una materia tanto vasta. Basti ricordare che il tardo giudaismo attendeva il māšîª quale sovrano escatologico di Israele. Concetto che sentiamo echeggiare nelle parole dell'arcangelo Gabriele, «il Signore Dio gli darà il trono di David, suo padre, e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno e il suo regno non avrà mai fine» (Luca [2, 32-33]). Ciò che i testi evangelici si premurano di dimostrare è che Gesù sia appunto il māšîª atteso da Israele, e quale modo migliore che non attribuire alla sua figura il compimento delle antiche profezie?
Quello della nascita di Gesù a Bēṯlẹḥẹm è solo un dettaglio tra tanti: i vangeli sono intessuti di citazioni dai testi profetici; la biografia di Gesù è letteralmente ricostruita intorno ai segni indicati dai profeti cinque secoli prima.
In quest'ottica, non sembra affatto fuori luogo che si sia voluto associare a Gesù anche il tema del «malvagio sovrano e del re bambino», già presente nel mito del liberatore Ciro ed evidentemente avvertito come obbligatorio nella tradizionale biografia del re/salvatore. Matteo si premura di far discendere Gesù da re David (Matteo [1, 1-16]), creando le premesse per un conflitto di legittimità con lo stesso Erode, sovrano di origine edomita, privo di sangue reale, e insediato sul trono di Giudea grazie al sostegno di Roma. La situazione, così come l'evangelista ce l'ha scodellata, è perfetta perché vi si appoggi il motivo letterario, assai ben conosciuto, del «malvagio sovrano e del re bambino».

Conclusione

Terminiamo questa analisi, più letteraria che mitologica, sul racconto natalizio, con una domanda semplice e inevitabile: ma allora, tutto ciò che è narrato nei vangeli non è altro che la rielaborazione, in chiave cristologica, di antichi motivi letterari indoeuropei, ereditati dalla Persia, dalla Grecia?
Nel suo libro L'infanzia di Gesù, Benedetto XVI confronta il tema della nascita soprannaturale di Gesù con quella degli eroi greci e con la teologia regale reclamata dai faraoni egiziani; la sua conclusione è che si tratta di motivi completamente diversi, che non hanno nulla in comune.
Non ci aspettavamo certo una conclusione diversa, da parte del Santo Padre. Il suo libro sviscera molti affascinanti dettagli sui testi evangelici relativi alla nascita e all'infanzia di Gesù, sebbene dal punto di vista interno di chi i miti cristiani li vive come verità di fede.
Ma è anche una questione di metodo, oltre che di obiettività. Se confrontiamo tra loro i singoli mitemi (ad es. la «nascita soprannaturale»), otteniamo soltanto di evidenziare le differenze nel modo in cui tali mitemi sono stati applicati a storie tanto distanti – in termini geografici, culturali, ideologici – quali i miti greci/iranici e i racconti evangelici.
Se mettiamo però a confronto degli schemi dettagliati, ecco che le differenze si rivelano per ciò che sono: elaborazioni secondarie, locali, dovute al retroterra culturale e all'ideologia che sorregge i racconti. Ciò che si evidenzia è piuttosto l'incessante ripetizione di un medesimo motivo letterario, continuamente rielaborato e variato.

La storia della nascita di Gesù, dunque, non è vera?
La mia risposta è che certe «verità» possono essere espresse meglio dal mito, che non dalla storia.

sabato 22 dicembre 2012

Il Natale. Festa solstiziale

L'articolo che segue è il primo di due legati alla festività del Natale, qui analizzata nel suo mero senso simbolico, quale riattualizzazione in chiave cristiana delle antiche ricorrenze solstiziali. Il prossimo articolo, previsto tra qualche giorno, analizzerà invece il racconto della nascita di Gesù dal punto di vista mitico-comparatistico. L'autore, che si dichiara perfettamente laico, non intende fare né apologesi né polemica, nella migliore tradizione del sito Bifröst.

In molti Paesi del mondo è tradizione, la Vigilia di Natale, recarsi alla messa di mezzanotte. Invece di andare a letto e cedere alle lusinghe del sonno, i fedeli indossano sciarpa e cappotto, calzano i guanti e imboccano la porta, decisi a celebrare in chiesa la nascita di Gesù. 
Ma Gesù nacque proprio la mezzanotte del 25 dicembre?
Non lo sappiamo. I Vangeli non riferiscono in quale mese e giorno Maria diede alla luce il suo bambino e tanto meno se fu prima o dopo il tramonto. Anzi, una delle poche cose che si possono dedurre, è che Gesù non nacque in inverno, visto che i pastori erano nei pascoli con le loro greggi. La data in cui festeggiamo il Natale è del tutto convenzionale.
Possiamo però riformulare la nostra domanda: perché il calendario liturgico ha fissato la ricorrenza della natività del Signore il 25 dicembre? E perché la celebrazione si svolge proprio a mezzanotte? 
Il Natale cade a ridosso del solstizio d’inverno, che come tutti sanno è il giorno più buio dell’anno, così come la mezzanotte è l’ora più buia del giorno. Non è possibile trovare, in tutto il calendario, un momento in cui le tenebre siano più fitte e profonde. 
La luce è una comodità che oggi diamo per scontata. Ci basta portare la mano all’interruttore per illuminare la casa; di notte le città scintillano di lampioni, insegne e vetrine. Se salta la corrente il disagio non dura che pochi minuti e in ogni caso abbiamo la torcia elettrica nel cassetto. Raramente, nel corso della nostra vita, sperimentiamo davvero l’oscurità. 
I nostri antenati, invece, vivevano in un mondo nel quale l’unica fonte di luce era quella naturale. Fuochi e lanterne potevano forse ritagliare qualche chiarore nella notte, ma si era sempre circondati da una tenebra totale e impenetrabile. Ci è difficile capire quali implicazioni questo semplice fatto avesse sulla vita, il pensiero e le emozioni di quegli uomini, che restavano intimoriti e impotenti dinanzi al buio. 
Sforziamoci di metterci nei loro panni. Essi vivevano a stretto contatto con la natura, computando il tempo secondo i movimenti della Luna e del Sole e partecipando al ciclico fluire delle stagioni. Equinozi e solstizi erano i fulcri intorno ai quali incernieravano l’anno, le cui ricorrenze appartenevano a un calendario sacro. Possiamo immaginare con quale apprensione assistessero al progressivo accorciarsi delle giornate, quando l’estate declinava e avanzava inesorabile l’inverno! Periodo lungo e difficile, che costringeva a starsene chiusi in casa, sbrigando piccoli lavori e raccontando storie davanti al camino. 
Ma quando la stagione fredda arrivava al culmine e la notte faceva scoccare la sua ora più nera, i nostri antenati si riunivano per accendere candele e fiammelle. Il cupo solstizio invernale diventava paradossalmente rito di speranza: si celebrava la consapevolezza che la discesa nelle tenebre si era arrestata, che le giornate avrebbero presto ripreso ad allungarsi mentre il mondo cominciava la lenta ascesa verso la primavera. 
Fin dalla più remota antichità, fin dalla preistoria, questo periodo dell’anno fu oggetto di riti e solennità particolari. In quel crogiolo di civiltà che fu la Roma imperiale molti culti si sovrapponevano nel solstizio d’inverno. Vi cadevano i Saturnali, l’antichissimo carnevale romano dedicato a Saturnus, signore dell’età dell’oro. Gli Egiziani celebravano il dio Wsjr e gli Ebrei la loro festa delle luci, Ḥănukkāh. Il 25 dicembre ricorreva la nascita di Miθra, divinità importata dalla Persia già nel tardo periodo repubblicano, e nello stesso giorno l’imperatore Aurelianus aveva fissato, nel 274, la festa del Sol Invictus.
Quando, nel 386, Iōánnēs Chrysóstomos spronò la sua comunità di fedeli a festeggiare il Natale il 25 dicembre, non fece che confermare un uso già diffuso presso i cristiani. I padri della Chiesa conoscevano troppo bene il significato dei simboli per non festeggiare la nascita del Salvatore in una data che non fosse a suo modo significativa. E ponendo il genetliaco di Gesù in coincidenza con le feste pagane del solstizio, essi non intendevano certo cancellare l’antichissima ricorrenza, quanto piuttosto recuperarla in senso cristiano, dandole un’interpretazione che da stagionale si faceva universale. Gesù era la luce del mondo che si accendeva nella più profonda tenebra della storia per portare speranza e salvezza al genere umano.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo...
Giovanni [I: 9]

Che idee del genere fossero nell’aria da qualche tempo l’aveva già testimoniato il romanissimo Vergilius: un passo particolarmente ispirato dei suoi Bucolicon gli avrebbe assicurato fama di profeta nel Medioevo e persino un ruolo di coprotagonista nella Commedia dantesca.
Ora è giunta l’ultima età della profezia cumana,
riprende da capo il grande ciclo dei secoli;
ora anche la Vergine torna, tornano i regni di Saturnus,
dall'alto cielo è fatta scendere una nuova progenie.
Tu dunque proteggi, casta Lucina,
il fanciullo che sta per nascere,
con il quale avrà fine la generazione del ferro
e sorgerà in tutto il mondo quella dell’oro.
Vergilius: Bucolicon Libri [IV: 4-10]

La storia si riavvolge su sé stessa, si chiude l’età del ferro e si rinnovella l’età aurea. È il ritorno in quel giardino di Eden da cui fummo cacciati all’inizio del tempo per essere condotti in questo mondo che è tutt’uno con il peccato e con la morte. È il ristabilimento della condizione iniziale in cui umano e divino sono compenetrati in una sola natura. Cos’altro è infatti la storia umana se non la misura del nostro esilio da Dio? Con la nascita del Divino Bambino questa forzata separazione arriva alla fine: giunti nel punto più oscuro e profondo del nostro cammino, cominciamo a salire nuovamente verso la luce. 

I conoscitori dei simboli sanno bene in che modo certi lentissimi moti delle stelle hanno da sempre illuminato il senso del tempo e della storia umana. Quando Vergilius scrisse la sua «profezia», si stava verificando un importante mutamento astronomico: la lentissima retrocessione dei punti equinoziali attraverso lo zodiaco faceva sì che il primo giorno di primavera non sorgesse più sotto gli auspici dell’Ariete, segno nel quale il Sole l’aveva annunciato per più di duemila anni, ma nel segno dei Pesci. E come ben sapevano i Magi, il puer meraviglioso sarebbe nato proprio quando i cieli avrebbero segnato questo passaggio epocale. Non a caso i primi cristiani utilizzavano, come segno di riconoscimento, la forma stilizzata di un pesce. Ichthýs, acrostico greco di «Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore».


I simboli non sostituiscono la fede, né la spiegano, ci aiutano però a interiorizzarla. I primi Cristiani riscrissero una simbologia che sapevano antica, sacra, e autentica. E qui è necessario superare un luogo comune e stabilire che il mŷthos non è semplicemente una finzione letteraria, ma una mappa in grado di guidarci attraverso le regioni più nascoste e segrete dell’anima umana. Il mito si nutre di simboli, i simboli sono attualizzati dal rito ed è attraverso il rito che ciò che è eterno sboccia nel tempo e nello spazio. 
Ritorniamo dunque alla nostra domanda iniziale: perché celebrare la messa di Natale nel solstizio d’inverno e proprio a mezzanotte? 
La spiegazione che abbiamo dato - come un rito sorto in epoche remotissime sia stato riletto da tante civiltà, prima di farsi cristiano, e sia stato infine trasmesso fino a noi – potrà soddisfare lo studioso di storia della religioni, ma alla fine rimaniamo con l’impressione che vi sia qualcosa di più profondo. L’analisi filologica, teologica, filosofica è soltanto arida scomposizione, se non è accompagnata da un’esperienza più intima. Lo sanno bene i temerari che escono di casa la notte di Natale, incuranti del freddo e del gelo, ben decisi a non perdere l’appuntamento con la messa di mezzanotte.
Spesso siamo ossessionati dalla comprensione razionale e dimentichiamo che il rito si muove soprattutto sul piano dell’esperienza. Il fascino della celebrazione notturna consiste proprio nel buio, nelle fiammelle che danzano nella penombra, nelle grandi navate che d’un tratto si riempiono delle note di Stille Nacht. Mezzanotte è l’ora in cui la mente si predispone al sonno ed ai sogni: siamo più suggestionabili, più ricettivi. Quella che percepiamo è, a tutti gli effetti, la fiaba stessa del Natale. Il sermone più erudito o l’omelia più brillante non potranno mai ricreare una tale misteriosa alchimia. 
Ma è necessario aprire il cuore e predisporci al senso del meraviglioso, farci prendere per mano – come bambini – dal puro piacere dell’affabulazione. Il racconto del falegname e della sua sposa che trovano rifugio in una stalla, il neonato deposto in una mangiatoia col bue e l’asinello che lo vegliano solerti, i pastori che lo visitano, la stella che guida i Magi, sono sì elementi di un racconto sacro, l’irruzione di Dio nella storia, ma sono anche – a livello più intimo – gli aspetti di una favola dolcissima che parla innanzitutto al cuore dell’uomo. Un percorso alla scoperta del Natale non può esimersi dall’esplorare il linguaggio dei simboli e dei miti che ne rappresentano il mistero in forma di racconto, dei riti con i quali, ogni anno e sotto tutte le latitudini, gli uomini e le donne fanno rivivere l’archetipo del Bimbo che nasce. È il modo in cui il mito esce dall’eternità ed entra nel mondo. 
Accendendo una candela la notte di Natale, possiamo sperimentare – di nuovo e per sempre – la luce che rischiara le tenebre, la speranza che il lungo esilio volga al termine e si prepari l’ascesa verso la nostra salvezza.

Dall'introduzione di Dario Giansanti al libro
La magia del Natale del mondo, di Claudia Maschio (QuiEdit 2006)


mercoledì 19 dicembre 2012

Oceano e Teti hanno divorziato


Può sembrare un gossip, anche se affonda le sue radici nella più remota antichità del mito greco. Ma che il ménage matrimoniale di Ōkeanós e Tēthýs fosse un po' traballante, ce lo dice addirittura Hómēros – e non siamo su Novella 2000, ma all'alba della letteratura occidentale – in un passo piuttosto noto dell'Ilías, dove la dea Hḗra così annuncia, mentendo:
Io vado a vedere i confini della terra feconda,
a Ōkeanós, origine degli dèi, e a madre Tēthýs,
che nelle loro case mi nutrirono e crebbero,
affidata da Rheía nei giorni che Zeús vasta voce
scoscese Krónos sotto la terra e il mare infecondo.
Loro vado a trovare, ché scioglierò un dissidio infinito:
ché ormai d'amore e di letto sono divisi da tempo,
ché avvampano d'ira nel seno.
Ilías [XIV: 200-207]

Questo passo è stato studiato in ogni minimo dettaglio, se non altro perché sembra implicare un mito della creazione distinto da quello di Hēsíodos, onde per cui si parla di «mito omerico della creazione». Qui, i progenitori degli dèi non sono Ouranós e Gaîa come in Hēsíodos, ma Ōkeanós e Tēthýs. Il primo viene chiamato a più riprese «origine degli dèi» [theôn génesis], la seconda loro «madre» [mētér]. Nel mito greco, Ōkeanós è il fiume di acqua salata che circonda il mondo, segnando il confine estremo dell'universo. Tēthýs è anch'essa una dea elementare, le cui acque sono confuse e mescolate con quelle di Ōkeanós. I due, uniti in un connubio indissolubile, sono all'origine di tutti i liquidi terrestri e sotterranei. Ogni fiume, lago, mare e sorgente trae le sue acque da quelle abissali e cosmiche di Ōkeanós Tēthýs.

Come già evidenziato da molti studiosi, quest'idea di una creazione originata dalle acque sembra provenire in realtà dal Medio Oriente e dalla Mesopotamia, dove l'universo primordiale era concepito come un profondo abisso acqueo. Nella tradizione babilonese, esemplificata dalla grandiosa cosmogonia dell'Enûma elîš (XVIII-XVI sec. a.C.), alle origini di tutto vi erano due entità liquide: Apsû, il principio maschile, l'abisso delle acque sotterranee; e Tiâmat il principio femminile, le salate profondità del mare. Considerati insieme materie acquee, principi cosmologici e personalità divine, Apsû Tiâmat esordiscono sulla scena cosmogonica, non soltanto accoppiati, ma mescolati e confusi insieme.
Quando lassù il cielo non aveva ancora nome
e quaggiù la terra non aveva ancora nome,
soli, Apsû, di tutti il progenitore
e la loro madre Tiâmat, di tutti la progenitrice,
mescolavano insieme le loro acque.
Enûma elîš [I: 1-5]

Mescolati in una massa liquida indifferenziata, Apsû Tiâmat sono all'origine di tutte le successive generazioni divine, benché l'intera teogonia si svolga interamente all'interno dell'abisso liquido da essi costituito.

Ma Apsû derivava, almeno etimologicamente, dall'Abzu sumerico, nome che gli antichi abitanti della Mesopotamia davano all'abisso liquido che sosteneva e circondava la terra, serbatoio cosmico che alimentava tutti i fiumi, i mari e le acque sotterranee. Da un punto di vista prettamente cosmologico, l'Abzu sumerico è identico a Ōkeanós, e peraltro assolve la stessa funzione in alcuni episodi mitologici (trasporta la barca del dio-sole nel suo viaggio notturno; viene attraversato da Gilgameš in circostanze omologhe a quelle di Hēraklês, etc.). Val la pena di notare che una delle possibili etimologie del nome Ōkeanós lo fa risalire a un accadico uginna, «anello», evidenziando la sua funzione di fiume che circonda il mondo. Ma l'Abzu sumerico, privo di una propria personalità, rimane fissato in una pura concezione cosmologica. È solo nella tradizione accadica che Apsû diviene una persona. 

Se l'origine di Abzu/Apsû risale ai Sumeri, Tiâmat appartiene, almeno in via etimologica, al mondo semitico. Il suo nome ricompare in ugaritico nella forma tahāmu e in ebraico nella forma tǝhôm, entrambi con il significato di «abisso», sebbene visto in forma impersonale. Un buon esempio viene fornito nel secondo versetto della Genesi:
La terra era informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie dell'abisso...
Bǝrēʾšît [1, 2]

L'ugaritico Tahāmu, l'ebraico Ṯəhôm e l'accadico Tiâmat sono termine corradicali: derivano da una radice semitica THM, che indica il «mare» (cfr. accadico tiamtu/tâmtu «mare»), ma più esattamente  l'abisso delle acque primordiali che precede la creazione. Il termine veniva avvicinato già nell'antichità alla parola greca thálassa «mare». Gli studiosi sono convinti che il gruppo Tahāmu/ǝhôm/Tiâmat si possa mettere in relazione con il nome di Tēthýs. È dunque perfettamente possibile che, alla base di Ōkeanós e Tēthýs, padre e madre degli dèi, vi sia un mito medio-orientale su un caos primordiale acqueo, peraltro posto in doppia configurazione di un elemento liquido maschile e uno femminile (come Apsû e Tiâmat).

Ma a rendere ancora più stretta la relazione tra mito mesopotamico e greco, vi sono anche alcune considerazioni formali. Ad esempio, due versi del poema accadico, «Apsû, di tutti il progenitore, e la loro madre Tiâmat, di tutti la generatrice» [Apsû-ma rêštû zârûšun mummu Tiâmat mu(w)allidat gimrišun] (Enûma elîš [I: 3-4]), mostrano un perfetto parallelismo con il verso omerico: «a Ōkeanós, origine degli dèi, e a madre Tēthýs [Ōkeanón te theôn génesin kaì mētéra Tēthýn], la cui natura formulare è confermata dalla sua ripetizione (Iliás [XIV: 201 | 302]).

Ma avevamo promesso di non fare del facile pettegolezzo e di scoprire, piuttosto, per quale ragione Ōkeanós Tēthýs si fossero separati, tantopiù che li avevamo presentati come mescolati insieme e praticamente inseparabili.

Hómēros non riferisce le ragioni del loro litigio. Sembra ovvio che, chiusa la fase cosmogonica, Ōkeanós e Tēthýs abbiano esaurito il loro ruolo generativo, e il loro dissidio giustifichi mitologicamente la fine dell'attività creativa. Ci chiediamo tuttavia se il tema del divorzio non sia ancora più antico e se non abbia un significato più profondo.

Ritorniamo ancora una volta ai miti semitici. Nel proseguo della narrazione, l'Enûma elîš narra di come Apsû e Tiâmat abbiano tentato di eliminare le divinità più giovani, nate nell'abisso liquido costituito dal loro stesso essere, al fine di ricondurre l'universo alla quiete e alla staticità primordiali. Ma gli dèi si ribellarono ed Ea uccise dapprima Apsû, trasformandolo da persona a luogo, tant'è vero che subito vi pose la propria dimora (il dio Ea risiede tradizionalmente  nelle acque cosmiche sotterranee). Sconfiggere Tiâmat non fu altrettanto facile, e solo Marduk vi riuscì, alla fine di una strenua lotta che è l'argomento del poema. Vincitore dello scontro, e nuovo signore dell'universo, Marduk divise in due parti il corpo di Tiâmat, come un pesce da seccare: una metà la spinse in alto, per costruire il cielo; l'altra la spinse in basso, edificando la terra.

Il mito è omologo a quello ebraico dove Yəhwāh lōhîm separa il tǝhôm in due parti, creando lo spazio per la successiva creazione, e tra le due masse d'acqua interpone l'intero cielo stellato:
Ed lōhîm disse: «Ci sia un firmamento in mezzo alle acque che divida le acque dalle acque».
Ed lōhîm fece il firmamento, separando le acque che sono sotto il firmamento e le acque che sono sopra il firmamento.La terra era informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie dell'abisso...
Bǝrēʾšît [1, 6-7]

Le acque sotto il firmamento, vengono quindi sospinte ai confini del mondo in modo da fare emergere la terra, tracciando una configurazione cosmologica assai simile alla nozione mesopotamica di Abzu/Apsû. Si noti che la parola è stata ereditata in ebraico nel concetto, ancora una volta impersonale, di asayîm o asê ereṣ, «confini della terra» (cfr. aryā [9: 10]). Un perfetto omologo orientale del nostro Ōkeanós.

I vari esiti semitici ci permettono di ricostruire, seppure con molta prudenza, un antico mito cosmogonico in cui l'universo primordiale è costituito da una massa acquea in doppia configurazione, maschile e femminile. In questo abisso liquido nascono le divinità, che poi provvedono a separare i loro genitori. Le acque femminili vengono spinte in cielo, per formare la volta delle acque superiori, quelle che, secondo la cosmologia semitica, «sono sopra il firmamento» e si rivelano attraverso la pioggia; le acque maschili vengono invece respinte ai confini della terra, dove formano l'oceano esterno che circonda il mondo.

Il «divorzio» di Ōkeanós e Tēthýs sembra riecheggiare la divisione delle acque primordiali presente nei miti semitici. In Grecia, perduto il senso del racconto, tale divisione si è trasformata in un litigio che tiene i due coniugi separati l'uno dall'altra; ma in origine, quella separazione doveva avere un significato cosmogonico e cosmologico. Hómēros non ci fornisce dunque un gossip ma un semplice pettegolezzo.

Gli elementi medio-orientali nel mito greco sono assai più forti di quello che sembrano, come cercheremo di dimostrare nei prossimi lavori...