Se le avventure di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda sono universalmente conosciute, se quelle dei cavalieri di Carlo Magno lo sono un po' di meno, pochissimo si sa sui cavalieri russi o bogatyri, a meno di non essere specializzati in filologia slava o di non essere incappati in qualche fortunato libro per ragazzi. Anche il materiale artigianale russo giunto in Europa occidentale dopo la caduta dei regimi comunisti (uova, matrioške e scatolette laccate) presenta infinite immagini tratte dalle ballate epiche, ma raramente l'acquirente nostrano sa riconoscerle.
Eppure il ciclo dei cavalieri russi, o bogatyri, è estremamente affascinante, ancorato com'è a una logica più vicina alla fiaba che all'epica, come Vladimir Jakovlevič Propp non ha trascurato di far notare, e questo è probabilmente uno dei motivi della loro grande popolarità.
I racconti sono stati tramandati oralmente per secoli nei villaggi rurali della Russia, e cantati in forme di particolari ballate popolari chiamate byliny (da una parola russa che significa «passato»). I folkloristi cominciarono a raccogliere le byliny solo all'inizio del XIX secolo, allorché il gusto romantico faceva sentire fortemente il revival per le tradizioni del passato. Troviamo vicende byliniche tra le fiabe della raccolta di Afanas'ev, ma anche nei libri di lettura che Lev Tolstoj scrisse per la sua famosa scuola di Jasnaja Poljana. Ma il primo folklorista che usò criteri scientifici fu lo slavista A.F. Gil'ferding, il cui immenso materiale fu pubblicato pustumo nel 1873. La quantità di materiale bylinico raccolta è cresciuta col tempo, ma per quanto enorme, non è sempre eccelsa, e ogni storia compare in numerose varianti, di cui le antologie non specializzate riportano solo quelle più significative.
Dei tre grandi bogatyri kievani, Il'ja Muromec, il "vecchio cosacco", incarna il prototipo dell'eroe forte e generoso, e per questo così caro al popolo russo. Il ciclo che lo riguarda presenta affinità con l'epica scandinava, finnica, bizantina, persiana e caucasica. La storia in cui Il'ja Muromec uccide il figlio Podsokol'nik non può non ricordare l'analogo episodio dell'epica iranica in cui Rustem uccide il figlio Sohrāb. La vicenda può anche essere avvicinata a quella germanica di Hildebrand che uccide il figlio Adubrand, nonché a quella irlandese di Cú Chulainn che uccide il figlio Conlaí.
Dobrynja Nikitič è il prototipo del signore nobile e di buona famiglia. La dote che lo contraddistingue dagli altri possenti guerrieri kievani, non è tanto la forza quanto l'astuzia: egli è un buon oratore e un fine diplomatico, e per di più, al contrario degli altri, è di famiglia principesca: suo padre è un nobile della città di Rjazan'.
Alëša Popovič è, dei tre bogatyri, quello dai caratteri più sfuggenti. Figlio di un religioso, è un forte e astuto guerriero, vincitore di terribili mostri e di iniqui tatari. Ma, nonostante le sue paladinerie, Alëša Popovič rimane un personaggio dal carattere ambivalente. Non è difficile vederlo mentire, bere, agire per pura invidia, calato nella veste del dongiovanni pronto a insidiare le mogli o le fidanzate degli altri e finendo immancabilmente col ricevere la giusta punizione per i suoi misfatti.
Il'ja, Dobrynja e Alëša sono un microcosmo che rappresenta in qualche modo l'intero popolo russo: il contadino onesto e generoso, il nobile valoroso e leale, e il religioso con ironici tratti di dongiovanni. Sarà un caso, ma non posso fare a meno di pensare che i tre bogatyri corrispondono punto per punto ai tre moschettieri di Dumas: Il'ja Muromec è Porthos, l'eroe di origni plebee, semplice e dalla forza erculea; Dobrynja Nikitič è Athos, il gentiluomo dai nobili natali che mostra in ogni tratto la sua innata signorilità; Alëša Popovič è Aramis, eternamente in bilico tra vocazione religiosa e avventure sentimentali.
Una sintesi della loro leggenda, disponibile su Bifröst: I bogatyri.