sabato 26 dicembre 2009

La statuetta di Lejre

Lo scorso Novembre è stata ritrovata nel sito archeologico di Lejre, in Danimarca, una statuetta alta circa 2 centimetri che ha destato un grande interesse:



Lo stile scultorio collocherebbe il manufatto attorno al 900 DC. Secondo i ricercatori del museo danese di Roskilde, la statuetta raffigura Óðinn seduto sul suo trono Hliðskjálf, con i suoi due corvi Huginn e Muninn.


La statuetta rappresenta una figura seduta su un trono o uno scranno decorato con due teste di lupo. Ai lati della figura siedono due corvi, attributi che in effetti sembrano far pensare immediatamente a Óðinn. Tuttavia, le vesti sembrano più femminili, lunghe, e attorno al collo sembra esserci un vistoso collare. C'è poi chi fa anche notare che la figura possiede distintamente due occhi aperti, mentre le raffigurazioni di Óðinn lo rappresentano sempre con un occhio aperto ed uno chiuso. Per cui, mentre il trono sembra proprio essere un attributo odinico, chi sta seduto potrebbe essere Freyja, Frigg, o addirittura – e questa è un'ipotesi da prendere con estrema cautela – Þórr vestito da donna che attende di recuperare il suo martello, come descritto nel Þrymskviða.


In effetti, siamo ancora di fronte ad un enigma.


Filmato dettagliato della figurina:

 




Articoli in rete:

http://oldnorsenews.org/2009/11/odin-at-lejre/
http://scienceblogs.com/aardvarchaeology/2009/11/odin_from_lejre_no_its_freya.php
http://norseandviking.blogspot.com/2009/11/odin-finally-discovered.html
http://www.vikingrune.com/2009/11/odin-from-lejre/
http://roskilde.lokalavisen.dk/et-unikt-fund-af-odin-fra-lejre/20091113/artikler/711139709

sabato 31 ottobre 2009

A proposito di Samain

Sinceramente non sono molto attratto dalle festività importate, anche se bisogna ammettere che ormai Hallowe'en (ovvero Ognissanti festeggiata all'americana) fa parte delle usanze italiane e con le manifestazioni di massa bisogna sempre fare i conti, con il debito rispetto... ma dietro a tutto questo c'è forse una piccola storie che merita di essere raccontata.


Vi ricordo innanzitutto che in questi giorni dell'anno, tutti i territori di cultura celtica occupati dai Romani celebravano la festa di Pomona, antica dea legata ai raccolti, alla maturazione della frutta e alla salute, in epoca classica relegata a divinità minore e rurale, ma che in tempi molto antichi doveva avere una certa importanza. Il suo nome deriva chiaramente da pomum, «frutto» o anche «mela». Neanche a dirlo, a me ricorda la nordica Iðunn, che portava sempre con sè un cesto di mele, le quali avevano la proprietà di mantenere sempre giovani gli intrepidi Æsir. Non credo proprio sia un caso.


A dire il vero la festa di Pomona si svolgeva originariamente in settembre, grosso modo quando si vendemmiava e quando maturavano le prime mele, poi però dopo la conquista dei territori celtici i Romani la spostarono opportunamente avanti in modo da farla coincidere con Samain, evidentemente per non far sentir troppo i Celti a casa loro.


Quindi è già più di duemila anni che questa festa viene opportunamente o indebitamente presa a prestito e gira per il mondo: i romani l'hanno presa dai dai celti, gli inglesi dai romani, poi sempre gli inglesi l'hanno portata negli Stati Uniti e sono diventati americani e alla fine gli italiani l'hanno ripresa dagli americani. Dopo circa duemila anni dunque la festa originaria è tornata a casa e il cerchio si è paradossalmente chiuso.


In sostanza, stiamo tornando a festeggiare una ricorrenza genuinamente italica, che adesso ha cambiato nome e aspetto, ma solo perché ha viaggiato tanto a lungo.


So che è un delirio, ma sembra funzionare...

venerdì 22 maggio 2009

Ori, frassini e viandanti cosmici

Accade con una certa frequenza a chi traduce testi antichi di imbattersi in qualche mistero di difficile soluzione, quando beninteso si abbia la fortuna di trovare una soluzione plausibile. Ancora più spesso capita infatti di dover accettare la realtà dei fatti e di accontentarsi di vaghe allusioni e di spiegazioni solo parziali, perché le fonti che si hanno a disposizione non permettono di ricostruire nulla di coerente. Le varie spiegazioni e le interpretazioni di studiosi e critici, poi, proprio in questi casi rischiano di fare ancora più confusione e di indurre a credere nei lettori che vi siano spiegazioni certe o ricostruzioni sempre plausibili, quando invece sarebbe ben più onesto ammettere la totale mancanza di elementi per poter procedere ad uno studio serio ed esaustivo.

Riferendoci alle recenti pubblicazioni su Bifröst, il Discorso di Svipdagr [Svipdagsmál] tradotto da Luca Taglianetti è un esempio di testo presentante più di un mistero, per la presenza di termini dall'etimologia poco chiara.

In particolare alla strofa 28 l'espressione eiri örglasis, che è evidentemente una pronominatio o una kenning per Sinmara (figura femminile di cui non si sa nulla, forse moglie di Surtr), è di difficile interpretazione e gli studiosi hanno cercato di penetrarla con lambiccate traduzioni, che riassumiamo di seguito:

- Viktor Rydberg traduce «dea dall'armilla splendente» [dis of the shining arm-ring] (Rydberg, Teutonic Mythology: Gods and Goddesses of the Northland 1886), emendando la prima parola eiri nel nome della dea Eir e quindi intendendo quest'ultimo come metafora per indicare una «dea» in generale, in base a un noto procedimento della poesia scaldica (esemplificato da Snorri nel Discorso sull'arte scaldica [7e-7f]). Tuttavia, non si capisce il motivo dell'armilla splendente, dato che nessun termine qui significa anello né armilla.

- Henry Bellows riprende la lettura di eiri come "dea" e traduce l'espressione eiri örglasis con "dea dell'oro splendente", che lo studioso considera una kenning "per donna" (Bellows, The Poetic Edda: Translated from the Icelandic with an Introduction and Notes, 1923).

- Eysteinn Björnsson, ultimo caso, è attualmente l'unico che intende il secondo termine come nome proprio e traduce il verso con "dea di Aurglasir" (Eysteinn, su Jörmungrund ).



Apparentemente tutto fila liscio, tuttavia c'è un problema relativo all'etimologia del nome Örglasir, che è chiaramente un composto fra i termini ör e glasir e per entrambi c'è una complicazione:

1 - La traduzione di ör con «oro» è certamente una grave forzatura, che presupporrebbe un prestito dal latino aurus o da una forma da esso derivata, mai attestata se non forse nella forma plurale aurar, «soldi, monete», che però al singolare è eyrir e nei composti assume la forma aura- (Cleasby-Vigfusson, An Icelandic-English dictionary). Difatti in antico nordico la parola per «oro» è piuttosto gull, radice che appartiene al più antico registro delle lingue germaniche (cfr. gotico gulþ, inglese gold, danese guld). In norreno ör significa innanzitutto "freccia" (da un ipotetico protogermanico *aurwō, cfr. anglosassone aruwe, inglese arrow), da cui una traduzione più attinente della kenning potrebbe essere "dea dalla freccia splendente". Un'altra possibilità è intendere il secondo termine come composto non di ör, ma di aurr, quindi *aurglasis.

2 - Glasir viene inteso come "splendente" o qualcosa di simile, il che può anche essere accettabile etimologicamente, tuttavia pare più pertinente ricordare che esiste un nome proprio Glasir, che appartiene al bosco dorato descritto nell'Edda di Snorri e che sta fuori delle porte di Valhöll. Letteralmente Glasir significherebbe qualcosa tipo "vetroso", quindi per estensione "splendente come il vetro". Una kenning per oro riportata dallo stesso Snorri è "foglie di Glasir" o "aghi di Glasir", in quanto gli alberi del boschetto hanno le foglie (o gli aghi, ne caso si tratti di conifere) d'oro.
Quindi nelle kenningar per "oro", si può effettivamente trovare il nome Glasir. Certo che questo non giustifica ancora la traduzione di eiri aurglasis come "dea dell'oro splendente".

A questo punto, cosa può significare aurglasir?

[caption id="attachment_233" align="alignleft" width="258" caption="Yggdrasill, da "An introduction to Old Norse" di E.V. Gordon"]Yggdrasill, da "An introduction to Old Norse" di E.V. Gordon[/caption]

Credo che per risolvere questo tipo di indovinelli, possiamo seguire quello che ci insegna Snorri, dal momento che si tratta dell'unico manuale di poesia norrena a disposizione che abbiamo. Eysteinn Björnsson, fra i tre traduttori citati sopra, è probabilmente il più vicino di tutti alla soluzione dell'enigma. Il nome proprio Aurglasir può in effetti essere una sorta di nome alternativo dell'albero cosmico Yggdrasill o di un altro albero mitologico. Glasir in questo caso potrebbe in effetti essere inteso quale pronomen di "albero" (così come Eiri è pronomen di "dea") e l' albero asperso di argilla (aurr) sappiamo essere proprio Yggdrasill.
Sinmara, quindi, potrebbe essere la "dea (eiri) dell'albero asperso di argilla", ovvero la dea di Yggdrasill. E dea di Yggdrasill cosa può significare? Questo non lo sappiamo ancora, ma intendiamo scoprirlo presto.

Sempre nel Discorso di Svipdagr alla strofa 38 compare poi il nome Örboða, il quale viene interpretato da Bellows e da Gianna Chiesa Isnardi come "[colei che] offre l'oro".

Anche in questo caso sarebbe più opportuno tradurre seguendo l'etimo più probabile, quindi "[colei che] offre la freccia", benchè il senso dell'espressione resti ancora da chiarire.

Eysteinn lo emenda in Aurboða, che almeno è nome attestato, essendo quello della madre di Gerðr, e in effetti la normalizzazione lo renderebbe possibile, ma purtroppo anche a seguito di tale interpretazione non riusciamo a saperne più di prima.

Una tessera importante di questi misteri è dunque la parola ör / aurr, o meglio le parole che iniziano per aur- o per ör-, il cui significato non è facile da chiarire perché l'etimo è spesso oscuro. Caso per caso bisogna ricostruire tutte le possibili derivazioni e, ove possibile, cercare di ricostruire il possibile percorso filologico.

C'è un altro probabile ed illustre derivato da ör / aur-, ovvero Aurvandill, personaggio assai poco definito, probabilmente parte di un antico mito germanico perduto di cui non esistono più fonti certe, se non le vaghissime allusioni che Snorri fa nel Discorso sull'arte scaldica, capitolo 25.

Del nome Aurvandill, o meglio della sua ancestrale forma originaria, restano tracce riconoscibili nel danese antico Ǿrwændel, nell'antico inglese Éarendel e nel tedesco Orentil (o Erentil). Aurvandill compare anche col nome latinizzato di Horvandillus nelle Gesta dei re dei Danesi di Sassone Grammatico quale padre di Amlethus. Ci sono notizie anche di un longobardo Auriwandalo, quale nome proprio di re o principe, che tuttavia si ritrova solo in documenti e non in fonti letterarie.

Come già sottolineato in precedenti discussioni, sul significato del nome Aurvandill e sulle varie ipotesi mitologiche associate è stato detto e scritto anche troppo. L'approccio più serio, in questo caso, è forse limitarsi a ricercare le varianti del nome nelle diverse lingue che è possibile rintracciare. Dall'analisi delle fonti si può in effetti ipotizzare un composto protogermanico originario in cui il secondo elemento è certamente derivato da un *wandilaz «viaggiatore, viandante». Relativamente al primo elemento, ci sono due possibile interpretazioni di Aurvandill:

1. «Viandante luminoso» o «viandante dell'aurora», nell'ipotesi che il primo elemento provenga da un protogermanico *ausi «luce, aurora» (cfr. nordico austr, "est, oriente", sanscrito uṣas, greco hḗōs, latino aurora, da un indoeuropeo *H2AUS-).
2. «Viandante con la freccia», nel caso in cui il primo elemento sia da intendersi ör «freccia». In tal caso la normalizzazione ortografica del nome sarebbe più propriamente Örvandill.

La principale differenza fra le due interpretazioni è che la seconda potrebbe essere supportata dalla mitologia comparata. L'analisi di De Santillana e Von Dechend ne Il mulino di Amleto in effetti spiega che questo personaggio potrebbe essere stato in origine un arciere mitologico, forse associato alla stella Sirio e alla costellazione di Orione, ma anche questa non è che una semplice ipotesi.

Ricordiamo comunque che del perduto mito di Aurvandill le poche righe scritte da Snorri nel Discorso sull'arte scaldica sono tutto quello che rimane.

Per gli appassionati di Aurvandill e dei suoi possibili derivati nelle altre tradizioni nazionali rimandiamo volentieri alla scheda di approfondimento recentemente inserita nello Schedario di Bifröst: http://www.bifrost.it/GERMANI/Schedario/Aurvandill.html

[Bergelmir & Holger Danske]

venerdì 24 aprile 2009

Nuova pietra runica scoperta in Svezia

Una pietra runica intatta è stata recentemente scoperta in occasione di scavi fatti nei pressi di una chiesa a Vallentuna, in Svezia.


Inizialmente nessuno si era accorto delle incisioni, dal momento che la pietra era compeltamente coperta da terriccio ed è quindi rimasta per mesi alle intemperie, ma le pioggie primaverili hanno progressivamente portato alla luce l'iscrizione sottostante. La pietra è dunque stata isolata e analizzata dall'archeologo e runologo Lars Andersson, il quale ha già rivelato che si tratta di una classica stele commemorativa. La maggior parte del testo è stato ricostruito e sembra che reciti quanto segue:


[...] fr eresse questa pietra in memoria di suo padre, Frösten

Pietra runica trovata a Vallentuna, Svezia
Il testo originale non è ancora stato pubblicato e non sono ancora note la datazione, né altre valutazioni archeologiche.

Fonte: thelocal.se

mercoledì 25 febbraio 2009

Giganti, cani e sapienti ?

Jötnar hundvísir?

Procedendo nella traduzione dell’Edda di Snorri, sono incappato in questo passo:


Því næst kom Þórr í höllina ok hafði uppi á lopti hamarinn ok var allreiðr ok spyrr hverr því ræðr er jötnar hundvísir skulu þar drekka...


in cui si trova un aggettivo di cui buona parte dei traduttori sembra aver ignorato o dimenticato l’etimologia.


L’aggettivo in questione è il raro hundvíss, un composto di un altro aggettivo, víss, che da solo significa «saggio, sapiente». Questo passo di Snorri si trova nello Skáldskaparmál, precisamente nell'episodio del duello fra Þórr e il gigante Hrungnir. Proprio l’associazione con i giganti è la probabile causa di un fraintendimento che si sta protraendo da qualche generazione, perché l’aggettivo hundvíss nel brano è usato proprio per definire i giganti: Jötnar hundvísir.


La metà problematica di questa parola è il prefisso hund-, che apparentemente può derivare dal sostantivo hundr, «cane». Se così fosse, l’aggettivo assumerebbe dunque il significato di «saggio come un cane», ponendo un parallelismo del tipo gigante ↔ cane, in un'accezione negativa. Sostanzialmente questo è il significato che almeno tre autorevoli traduttori hanno attribuito all'aggettivo. Riporto sotto le traduzioni originali:





  • Rasmus Anderson (1897): At once Thor was in the hall, swung his hammer in the air, and, being exceedingly wroth, asked who was to blame that dog-wise giants were permitted to drink there...


  • Arthur Gilchrist Brodeur (1916): Straightway Thor came into the hall, brandishing his hammer, and he was very wroth, and asked who had advised that these dogs of giants be permitted to drink there ...


  • Giorgio Dolfini (1975): Immediatamente Thórr comparve nella sala e teneva levato in aria il martello e chiede chi mai ha deciso che dei cani di giganti dovessero bere colà ...


  • Gianna Chiesa Isnardi (1975): Þórr arrivà subito nella sala e roteò per aria il martello. Era assai infuriato e domandò chi mai aveva consigliato di far bere colà i saggi giganti ...


Il più esplicito è Anderson, che traduce letteralmente dog-wise, ovvero «saggi come cani». Che un aggettivo possa significare «saggio come un cane» a noi lettori moderni suona strano, anche se potremmo aspettarcelo come eventuale esito di una qualche kenning denigratoria, ma né la logica né il contesto suffragano un’ipotesi del genere.


Brodeur e Dolfini si spingono oltre e interpretano liberamente sciogliendo la definizione con il più idiomatico «cani di giganti». L'unica fra i quattro che traduce assai diversamente è Gianna Chiesa Isnardi, la quale opta per «saggi».


Chi ha ragione?


A rigore, nessuno dei quattro, tuttavia la traduzione della Isnardi è senz'altro quella più corretta.


La vera etimologia dell'aggettivo hundvíss infatti non é da hundr «cane», ma dal prefisso hund-, senza -r, una forma di hundrað, «centoventi» («cento» in tempi più recenti), usata solo in alcune parole composte con valore rafforzativo. Quindi hund-víss significa «molto saggio», «cento volte saggio», «estremamente saggio».


L'assonanza con hundr, tuttavia, non era ignorata dai parlanti scandinavi e finì per dare all'aggettivo una sfumatura negativa e inquietante che l'etimologia da sola non giustifica. Più precisamente, dunque, hundvíss si può tradurre con «malvagiamente saggio», «dai pensieri contorti», che effettivamente meglio si adatta alla vera natura dei giganti nordici: esseri estremamente sapienti in quanto antichissimi, ma spesso tremendi e malevoli e non certo dei «cagnacci» qualunque. Si pensi che giusto Hrungnir, in questo episodio, affronta Óðinn in persona in una tenzone a cavallo...


Bibliografia:
Cleasby ~ Vigfússon (1874), An Icelandic-English Dictionary.
Geir T. Zoëga (1910), A concise dictionary of Old Icelandic.

sabato 17 gennaio 2009

A proposito degli ospiti invernali


Forse nel tentativo di non dimenticare completamente le passate festività con annesse vacanze natalizie e di fine anno, mi sovviene un ricordo di una vecchia fiaba, di certa origine scandinava, che narra di un misterioso viandante il quale giunge, in compagnia di un orso polare, presso una fattoria la sera prima di Natale chiedendo ospitalità.


Il padrone di casa, che si chiama Halvor, lo avverte che presto, proprio quella notte, la casa verrà visitata dai troll, poiché ogni notte della vigilia hanno l'abitudine di invadere la sua fattoria, esaurire il pasto preparato per la cena e mettere tutto a soqquadro.


Il viandante da parte sua risponde di non essere affatto spaventato dai troll e chiede di essere ospitato per la notte. Halvor acconsente, ma abbandona la casa insieme alla sua famiglia, lasciando la tavola completamente imbandita per i troll, mentre il viandante viene lasciato, insieme al proprio orso, ad attendere gli ospiti indesiderati. L'orso bianco si assopisce presto sotto il tavolo della sala principale, mentre il viandante si rintana in una piccola stanza e dorme.


Giunta la mezzanotte, i troll arrivano; ce ne sono sia di grandi che di piccoli e presto iniziano a divorare tutto il cibo e a fare la solita confusione nella casa del povero fattore. Un giovane troll scorge l'orso che dorme sotto il tavolo e, arrostita una salsiccia sul fuoco, gliela infila sotto il naso, fumante e bollente, chiamandolo «gattino». L'orso bianco, infastidito, si alza ruggendo e si mette a cacciare tutti i troll, grandi e piccoli, causandone presto la fuga. Arrivato il mattino, il viandante e l'orso se ne vanno, fra i ringraziamenti del fattore e dei suoi famigliari, felici e stupiti.


L'anno successivo, sempre la sera della vigilia, mentre Halvor si appresta a lasciare la casa come ogni anno per evitare la visita dei troll, si sente chiamare da una voce che proviene dal bosco e gli chiede se possiede ancora «quel gatto». «Sì», risponde il fattore, «sta dormendo in casa, vicino al fuoco». «Non torneremo mai più» dice la voce e da quel giorno mai più un troll farà ritorno alla fattoria.


troll

Questa è una fiaba curiosa, conosciuta in Norvegia e in Finlandia come Kjetta på Dovre, il «Gatto di Dovre», della quale sono note numerose varianti in diversi paesi di influenza germanica.


Esiste in effetti nella tradizione scandinava un curioso caso di leggende e storie che hanno un soggetto in comune, difficilmente riscontrabile nel corpus leggendario di altre culture: l'arrivo di ospiti che si presentano presso una casa, solitamente una fattoria, prima della notte di Natale o di Capodanno. Questi ospiti nelle storie più antiche sembrano essere fortemente indesiderati, in quanto si tratta spesso di fantasmi (o meglio, draugar) che vorrebbero tornare in vita, oppure troll e folletti che si recano dal malcapitato padrone di casa per banchettare e gozzovigliare con le sue provviste, magari preparate proprio per le feste di Natale o di fine anno, che nella Scandinavia precristiana corrispondevano alle festività per il solstizio d'inverno, jól (cfr. inglese Yule).


In alcuni casi, come in Kjetta på Dovre,, giunge poi un viandante che arriva da lontano e che trascorre la notte nella casa, riuscendo in qualche modo ad avere la meglio sugli ospiti indesiderati, i quali non faranno più ritorno.
Forse il primo racconto di questo tipo si ritrova nella Eyrbyggja saga, la «Saga degli uomini di Eyrr», dove il giorno di Natale una fattoria viene invasa da numerosi draugar di uomini morti sia in mare che a terra e che seminano il terrore.


Un'altra leggenda di questo tipo è islandese ed è nota come Jólanótt í Kasthvammi, la «Notte di Natale a Kasthvammr», secondo la quale chiunque rimanga a casa durante la vigilia di Natale scompare e non viene mai più rivisto. Si narra però che un uomo, senza nome come il viandante del Gatto di Dovre, volle sfidare il destino e trattenersi in casa durante la vigilia, per vedere cosa sarebbe successo. Anche in questo caso egli si nasconde e a mezzanotte sente la casa piena di rumori e schiamazzi. I rumori aumentano in modo inquietante e sembrano diffondersi per tutta la casa, ma l'uomo, uscito dal nascondiglio, non vede nessuno. Allora imbandisce una tavola ricchissima per gli «ospiti» e prepara loro anche dei vestiti, poi torna a nascondersi.


I visitatori tornano allo scoperto, si mettono a mangiare, ma quando sono nel pieno del banchetto, l'uomo balza fuori dal nascondiglio. Sono folletti [huldufólk], che fuggono immediatamente dalla casa. L''uomo li insegue, ma essi scompaiono dentro le rocce e non si faranno mai più vedere. In altre varianti della leggenda, l'uomo esce dal nascondiglio e annuncia l'arrivo imminente del sole e anche in questo caso scatena il terrore dei folletti.


C'è dunque in questi racconti il tema di qualcosa di soprannaturale e di spaventoso che succede durante i giorni del solstizio d'inverno, ma che in qualche modo viene dominato grazie all'intervento di un uomo, il quale rappresenta una sorta di garanzia di cambiamento e di rassicurazione.


È interessante, inoltre, che anche nel caso del più celebre poema medio-inglese Sir Gawayn and the Grene Knyght, il misterioso Cavaliere Verde si presenti proprio durante la sera di Natale, come si legge:


þis kyng lay at camylot vpon kryst masse
with mony luflych lorde ledez of þe best


Era il re a Camelot per il Natale
molti signori con lui, belli, i migliori...


Può esserci o meno un effettivo legame fra Gawain e le leggende scandinave dei visitatori di Natale. Quel che sembra chiaro comunque è che nei paesi di area germanica doveva esistere un'ancestrale timore associato al solstizio d'inverno, che nel corso della storia si è differenziato in leggende sopravvissute in numerose varianti locali, fino alla definitiva conversione in storie e fiabe a seguito della cristianizzazione del nord Europa.


In queste narrazioni si è tramandato forse l'antico ricordo, trasformato e stravolto da secoli di tradizioni orali, di quello che doveva essere una delle paure più ancestrali dei popoli nordici: quella della scomparsa del sole.